Tre mesi all'ora X - capitolo 9


Il logo 

“E’ mia, dammela subito!”

Il tono è deciso e insieme allo sguardo duro è quasi minaccioso. Io sono sceso dalla bicicletta sulla pista ciclabile lungo il fiume Dora dove vado ogni tanto. Malgrado sia l’inizio di dicembre la giornata è bella e il clima mite. Il pallone mi è praticamente piombato fra le ruote e mi sono fermato a raccoglierlo. Non vedo da dove è arrivato perché la pista ciclabile scorre un po’ sotto un avvallamento erboso. Prendo la palla in mano e risalgo per una striscia di prato nella direzione dalla quale è arrivata. Lei avrà non più di sette-otto anni, capelli biondi decisamente arruffati e non proprio puliti, le guance arrossate dal freddo e dalla corsa, gli occhi azzurri. Indossa una tuta verde decisamente malconcia, sui lati delle gambe corre sulla tuta una striscia arancione con in nero la scritta Reebok. C’è anche qualche strappo sulle ginocchia. La stessa scritta è sulla spessa maglia verde di cotone con il cappuccio.  

Ho posato la bici a terra e mi avvicino a lei risalendo il pendio con la palla in mano, senza dire una parola. Lei mi guarda con una preoccupazione crescente sulle mie intenzioni, che trapela dallo sguardo, ma malgrado sia poco più alta della metà di me resta impettita e non arretra di un passo. Quando le sono vicino le allungo la palla, lei si rilassa in un moderato sorriso, la prende, mi osserva ancora un momento perplessa e scappa via. Solo per un attimo osservo anche le scarpette, alte, nere e decisamente consumate con la targhetta della Reebok e la bandierina inglese. Risalito il pendio scorgo il campetto di calcio con pali e reti che improvvisano una specie di porta.  Una decina di ragazzini, quasi tutti maschi, riprendono a giocare appena la biondina, forse la più piccola fra loro, riporta la palla. Molti di loro indossano tute e scarpe consunte dove però compare ancora con evidenza il logo di alcune delle marche più note: Reebok e Adidas in particolare. Per alcuni il logo compare anche su una fascia di lana infilata sulla testa che ripara le orecchie dal freddo. Casualmente so tutto sulla Reebok, che scoprii all’inizio degli anni ’80 durante un viaggio negli Stati Uniti e all’epoca quelle scarpe sportive erano sconosciute in Italia. Ne avevo comprato un paio per Hope che a 12 anni non portava abitualmente altro che jeans scoloriti e scarpe da tennis.  Per 60 dollari al paio, nere e rigorosamente con logo e bandierina inglese, le tre fasce orizzontali imbottite che risalgono su per la caviglia, erano una vera novità che negli USA aveva letteralmente invaso tutti i negozi di calzature sportive.  Hope, che le ricevette a fine anno quando tornò dall’India per le festività, ne fu entusiasta perché anche per lei, che però non so come ne conosceva già il logo, erano introvabili in India. Credo che la prima notte le abbia tenute anche per dormire. 

In realtà la storia della Reebok ha origine in Inghilterra nel 1895 con Joseph William Foster, un artigiano che creò a mano le prime scarpe da corsa chiodate e in poco tempo la sua piccola azienda famigliare, la J.W.Foster and Son, conquistò  molti atleti famosi  nel mondo. Già nel 1924 l’azienda forniva le calzature ai Giochi Olimpici di Parigi. Alla fine degli anni ’50 i due nipoti di Joseph fondarono una nuova società, che assorbì in fretta quella originaria. Gli dettero nome Reebok, che era il nome trovato da uno dei due su un dizionario in edizione sudafricana vinto a una gara da ragazzo. Il dizionario indicava con Rhebok un esemplare molto veloce di gazzella presente in Sud Africa, la cui testa è quella stilizzata nel marchio della Reebok. Un importatore americano, Paul Fireman, nel 1979 porta il nuovo marchio negli Stati Uniti, dove nel frattempo impazza la moda dell’aerobica. Le nuove scarpe, particolarmente gradite dalle donne, malgrado il costo rilevante invadono centri commerciali, scuole e palestre. Con la Coca Cola e i jeans della Levi’s, i cui tessuti pochi sanno che originano da artigiani italiani di Chieri e di Genova, la diffusione del logo, come marchio che caratterizza uno specifico prodotto e soprattutto uno specifico produttore, è stata la novità degli anni ’80 dalla quale in pochi, non solo fra i giovani, sono rimasti immuni. Tant’è che negli anni ’90 si è presentato, negativamente, il ruolo del Logo come il grimaldello che ha favorito la globalizzazione dei mercati, accompagnata dall’accentramento del commercio nelle mani di poche multinazionali. 

Proprio in questi giorni sta uscendo un libro di una giovane giornalista canadese di nome Naomi Klein, dal titolo NoLogo, che introduce una riflessione più profonda sul fenomeno del commercio con l’invasione del Logo dei prodotti. La pubblicizzazione del Logo ha un costo rilevante che si aggiunge a quello delle materie prime e del salario dei lavoratori. Un costo che, secondo la Klein, viene largamente recuperato con le maggiori vendite ma soprattutto con lo spostamento delle produzioni nei paesi più poveri dove salario e tutele ambientali attinenti alle attività produttive sono praticamente ridotti al minimo. Avevo provato già più dieci anni fa a discuterne con Hope, che seppure in modo intermittente, con il suo domicilio vagante fra l’Italia e l’India, crescevo come una figlia e quindi con lei mi confrontavo un po’ su tutto quanto avveniva nel mondo, specie in quello dei più giovani. L’internazionale dei ragazzi consumatori nell’epoca dei media nascenti nella rete ma in veloce espansione è forse l’unica associazione spontanea sopravvissuta alle ideologie diffuse nel pianeta del secolo che finisce. All’epoca chiedevo a Speranza che importanza potesse avere “la marca” (il brand) delle cose che indossava, trovandola assolutamente refrattaria a qualsiasi estremizzazione, anzi propensa a minimizzare la questione.
“Il mio swoosh, cioè l’ala disegnata nelle mie scarpe Nike ad esempio, è per me solo un segno grazioso. So vagamente che è un segno di vittoria e immagino che si riferisca al possibile uso di queste scarpe nelle competizioni sportive, ma io sinceramente le compro perché sono comode, ben fatte e sembrano molto resistenti”. Così chiudeva lei la discussione.

La risposta di Hope era stata di quelle equilibrate tenendo conto che all’epoca aveva più o meno vent’anni. In effetti anche la storia delle scarpe Nike sembra nascere ed evolvere in modo quasi casuale. Nike in greco antico significa vittoria e deriva dal nome del personaggio mitologico greco, la figlia alata di un titano e di una ninfa, forse rappresentando la unione di forza e grazia che con le ali permettono di alzarsi in alto. Il nome ha anche una forse casuale assonanza con Phil Knight, un piccolo imprenditore che nel 1971 aveva il progetto di mettersi a costruire scarpe sportive. Casualmente all’Università di Portland in Oregon incontrò Carolyn Davidson, una studentessa di design che un po’ per gioco e un po’ seriamente si offrì di inventare un nome e un’immagine per i suoi prodotti. Chiese due dollari all’ora per il suo lavoro e per Knight fu probabilmente un affare. La ragazza ci lavorò 17 ore e ci guadagnò 35 dollari. Ma Knight, che fino ad allora vendeva scarpe esponendole sul pianale posteriore abbassato della propria auto, con la dea alata Nike e lo swoosh dell’ala stilizzata decollò verso un grande successo e la Nike è oggi una delle prime multinazionali del mondo. 
  
Un compromesso su questa singolare vicenda del logo infine lo ha enunciato con un singolare punto di vista Valentina, come sempre assolutamente lontana dall’ideologizzare i propri ragionamenti:
 “Il Logo di per sé non ha alcun ruolo negativo, tant’è che negli ultimi anni iniziano a comparire loghi di prodotti e alimenti che proprio nella garanzia dei diritti dei lavoratori e delle tutele ambientali basano la propria specifica qualità offerta al consumatore. Insomma, un logo, cioè un nome e meglio un’immagine per rappresentare un prodotto o un’attività commerciale, mi sembrano normali e accettabili. D’altronde - ci spiega Valentina - la scelta viene da lontano. Addirittura, già ai tempi dell'antica Roma i primi negozi trovarono rapidamente un buon metodo per fare propaganda alle proprie merci: l'uso di figure. Le latterie si facevano riconoscere con un’insegna dove era abbozzata l’immagine di una mucca, le macellerie esponevano il disegno di una fila di prosciutti, i calzolai esponevano un'insegna con uno stivale. Successivamente si arrivò ad aggiungere un nome che però doveva essere breve, facile da ricordare. Per parecchi secoli tutto ciò fu comunque indispensabile perché la quasi totalità dei possibili acquirenti era analfabeta, e solo figure e brevi simboli grafici di facile riconoscimento li mettevano in grado di riconoscere un particolare prodotto “.

Valentina aggiunge che lei stessa ha sperimentato i diversi possibili messaggi che il logo può veicolare.  Collaborando con la cooperativa di donne indiane povere che si erano date l’obiettivo di autoprodurre alcuni tipi di prodotti di vestiario e di utensili per la casa, aveva costatato l’entusiasmo con cui il gruppo aveva deciso di scegliere un proprio logo come sinonimo di autogestione e affrancamento dalla povertà e dalla dipendenza economica. Ed era stata una scelta semplice che aveva entusiasmato tutte: una specie di sole raggiante costituito da una serie di mani aperte che si uniscono in cerchio ed al centro una semplice linea curva che rappresenta una bocca che sorride. Le donne che si erano unite in quella attività artigianale i cui prodotti si erano subito diffusi con successo in vari villaggi della zona e addirittura al di fuori del paese grazie anche all’aiuto di Valentina e di Hope, avevano riacquistato il sorriso, una ragione di vita e un senso di comunità, oltre a qualche migliore possibilità di sopravvivenza per tutte.
 
Ma il logo – ci ricorda Valentina - non ha una doppia faccia, segue il destino di quello che rappresenta e bisogna fare ben attenzione a cosa si sceglie. Basta pensare a movimenti politici o partiti che magari dopo un momento di gloria si sono rivelati insignificanti e sono finiti ai margini. Il loro logo, come i loro capi, diventano il segno visibile e indimenticabile del loro insuccesso ed è difficilmente recuperabile con lo stesso logo e gli stessi capi, il consenso perduto. Tant’è che alcuni, magari per cambiare solo l’immagine restando gli stessi, per prima cosa cambiano il nome del gruppo ed il suo logo. E non si può comunque diffondere sul mercato un logo in contraddizione con la propria immagine che si vuole presentare al pubblico. Valentina ricorda bene quel famoso Guru che in India, già nella fase calante della propria vicenda storica si presentava in pubblico o in foto esibendo come una collezione una serie di automobili Rolls Royce quasi mostrate come proprio singolare logo. Un triste tentativo di presentare e trasmettere un’immagine di forza da comunicare agli altri. Qualcosa da proporre che in realtà si era già dissolto.  
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La gestione commerciale di un marchio (brand) per aumentare il valore percepito di un prodotto e favorirne l’acquisto è una disciplina commerciale nata e sviluppata all’inizio del ‘900 dalla società Procter & Gamble fondata a fine ‘800 dal candelaio inglese William Procter e dal saponiere irlandese James Gamble. La società cresce nei primi decenni del secolo nel settore del benessere e di vari beni di consumo famigliari dedicando per la prima volta una forte attenzione e un rilevante investimento nella pubblicazione del proprio marchio originario e poi di diversi specifici marchi progressivamente inventati o assorbiti dalla società nei più diversi settori. Dai prodotti Vicks per il raffreddore a Pantene per i capelli, da Tampax per l’igiene intima a Iams per gli animali, da Gillette per la rasatura a Pampers per i neonati, da Dash per i detersivi ad AZ per i dentifrici e molti altri.  La pubblicizzazione del Logo del prodotto diventa impegno centrale mentre l’attività produttiva diventa quasi marginale e progressivamente viene delocalizzata in aree periferiche del pianeta dove salari, condizioni e orario di lavoro, impatto ambientale dell’attività, hanno minori controlli e attenzione.

Nel 1997 il regista Michael Moore nel suo documentario The Big One ha analizzato i metodi adoperati dalla Procter & Gamble per ridurre il personale a Cincinnati con migliaia di licenziamenti, delocalizzando in paesi periferici pur avendo avuto negli ultimi tre-quattro anni sei miliardi di dollari di profitti. P&G nella attività di pubblicità televisiva e radiofonica dei suoi marchi è stata il soggetto inventore della soap opera, serie di racconti di vita quotidiana connessi alla pubblicizzazione dei propri prodotti. Una rinomata produzione della P&G in USA è stata Sentieri, che conta dal 25 gennaio 1937 più di 15000 puntate. In Italia Mediaset ne ha trasmesse circa 700. Con il saggio No Logo di Naomi Klein il ruolo che la pubblicizzazione del Logo e del Brand hanno assunto da parte di decine di multinazionali negli ultimi decenni del secolo scorso è diventato argomento di rilevo nella critica del comportamento di quelle aziende rispetto alle condizioni di lavoro e di sfruttamento dei lavoratori, compreso l’uso dei minori e l’indifferenza alle problematiche dell’inquinamento ambientale delle produzioni. No Logo diventava anche un riferimento diffuso nel cosiddetto Movimento No Global che emergeva alla ribalta dell’attenzione mondiale con le grandi manifestazioni contro la Conferenza del WTO a Seattle del novembre 1999.

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