Il
logo
“E’
mia, dammela subito!”
Il
tono è deciso e insieme allo sguardo duro è quasi minaccioso. Io sono sceso
dalla bicicletta sulla pista ciclabile lungo il fiume Dora dove vado ogni
tanto. Malgrado sia l’inizio di dicembre la giornata è bella e il clima mite.
Il pallone mi è praticamente piombato fra le ruote e mi sono fermato a
raccoglierlo. Non vedo da dove è arrivato perché la pista ciclabile scorre un
po’ sotto un avvallamento erboso. Prendo la palla in mano e risalgo per una
striscia di prato nella direzione dalla quale è arrivata. Lei avrà non più di
sette-otto anni, capelli biondi decisamente arruffati e non proprio puliti, le
guance arrossate dal freddo e dalla corsa, gli occhi azzurri. Indossa una tuta
verde decisamente malconcia, sui lati delle gambe corre sulla tuta una striscia
arancione con in nero la scritta Reebok. C’è anche qualche strappo sulle
ginocchia. La stessa scritta è sulla spessa maglia verde di cotone con il
cappuccio.
Ho
posato la bici a terra e mi avvicino a lei risalendo il pendio con la palla in
mano, senza dire una parola. Lei mi guarda con una preoccupazione crescente
sulle mie intenzioni, che trapela dallo sguardo, ma malgrado sia poco più alta
della metà di me resta impettita e non arretra di un passo. Quando le sono
vicino le allungo la palla, lei si rilassa in un moderato sorriso, la prende,
mi osserva ancora un momento perplessa e scappa via. Solo per un attimo osservo
anche le scarpette, alte, nere e decisamente consumate con la targhetta della
Reebok e la bandierina inglese. Risalito il pendio scorgo il campetto di calcio
con pali e reti che improvvisano una specie di porta. Una decina di ragazzini, quasi tutti maschi,
riprendono a giocare appena la biondina, forse la più piccola fra loro, riporta
la palla. Molti di loro indossano tute e scarpe consunte dove però compare
ancora con evidenza il logo di alcune delle marche più note: Reebok e Adidas in
particolare. Per alcuni il logo compare anche su una fascia di lana infilata
sulla testa che ripara le orecchie dal freddo. Casualmente so tutto sulla Reebok,
che scoprii all’inizio degli anni ’80 durante un viaggio negli Stati Uniti e
all’epoca quelle scarpe sportive erano sconosciute in Italia. Ne avevo comprato
un paio per Hope che a 12 anni non portava abitualmente altro che jeans
scoloriti e scarpe da tennis. Per 60
dollari al paio, nere e rigorosamente con logo e bandierina inglese, le tre
fasce orizzontali imbottite che risalgono su per la caviglia, erano una vera
novità che negli USA aveva letteralmente invaso tutti i negozi di calzature
sportive. Hope, che le ricevette a fine
anno quando tornò dall’India per le festività, ne fu entusiasta perché anche
per lei, che però non so come ne conosceva già il logo, erano introvabili in
India. Credo che la prima notte le abbia tenute anche per dormire.
In
realtà la storia della Reebok ha origine in Inghilterra nel 1895 con Joseph
William Foster, un artigiano che creò a mano le prime scarpe da corsa chiodate
e in poco tempo la sua piccola azienda famigliare, la J.W.Foster and Son,
conquistò molti atleti famosi nel mondo. Già nel 1924 l’azienda forniva le
calzature ai Giochi Olimpici di Parigi. Alla fine degli anni ’50 i due nipoti
di Joseph fondarono una nuova società, che assorbì in fretta quella originaria.
Gli dettero nome Reebok, che era il nome trovato da uno dei due su un
dizionario in edizione sudafricana vinto a una gara da ragazzo. Il dizionario
indicava con Rhebok un esemplare molto veloce di gazzella presente in Sud
Africa, la cui testa è quella stilizzata nel marchio della Reebok. Un
importatore americano, Paul Fireman, nel 1979 porta il nuovo marchio negli
Stati Uniti, dove nel frattempo impazza la moda dell’aerobica. Le nuove scarpe,
particolarmente gradite dalle donne, malgrado il costo rilevante invadono
centri commerciali, scuole e palestre. Con la Coca Cola e i jeans della Levi’s,
i cui tessuti pochi sanno che originano da artigiani italiani di Chieri e di
Genova, la diffusione del logo, come marchio che caratterizza uno specifico
prodotto e soprattutto uno specifico produttore, è stata la novità degli anni
’80 dalla quale in pochi, non solo fra i giovani, sono rimasti immuni. Tant’è
che negli anni ’90 si è presentato, negativamente, il ruolo del Logo come il
grimaldello che ha favorito la globalizzazione dei mercati, accompagnata
dall’accentramento del commercio nelle mani di poche multinazionali.
Proprio
in questi giorni sta uscendo un libro di una giovane giornalista canadese di
nome Naomi Klein, dal titolo NoLogo, che introduce una riflessione più
profonda sul fenomeno del commercio con l’invasione del Logo dei prodotti. La
pubblicizzazione del Logo ha un costo rilevante che si aggiunge a quello delle
materie prime e del salario dei lavoratori. Un costo che, secondo la Klein,
viene largamente recuperato con le maggiori vendite ma soprattutto con lo
spostamento delle produzioni nei paesi più poveri dove salario e tutele
ambientali attinenti alle attività produttive sono praticamente ridotti al
minimo. Avevo provato già più dieci anni fa a discuterne con Hope, che seppure
in modo intermittente, con il suo domicilio vagante fra l’Italia e l’India,
crescevo come una figlia e quindi con lei mi confrontavo un po’ su tutto quanto
avveniva nel mondo, specie in quello dei più giovani. L’internazionale dei
ragazzi consumatori nell’epoca dei media nascenti nella rete ma in veloce
espansione è forse l’unica associazione spontanea sopravvissuta alle ideologie
diffuse nel pianeta del secolo che finisce. All’epoca chiedevo a Speranza che
importanza potesse avere “la marca” (il brand) delle cose che indossava,
trovandola assolutamente refrattaria a qualsiasi estremizzazione, anzi propensa
a minimizzare la questione.
“Il
mio swoosh, cioè l’ala disegnata nelle mie scarpe Nike ad esempio, è per me
solo un segno grazioso. So vagamente che è un segno di vittoria e immagino che
si riferisca al possibile uso di queste scarpe nelle competizioni sportive, ma
io sinceramente le compro perché sono comode, ben fatte e sembrano molto
resistenti”. Così chiudeva lei la discussione.
La
risposta di Hope era stata di quelle equilibrate tenendo conto che all’epoca
aveva più o meno vent’anni. In effetti anche la storia delle scarpe Nike sembra
nascere ed evolvere in modo quasi casuale. Nike in greco antico significa
vittoria e deriva dal nome del personaggio mitologico greco, la figlia alata di
un titano e di una ninfa, forse rappresentando la unione di forza e grazia che
con le ali permettono di alzarsi in alto. Il nome ha anche una forse casuale
assonanza con Phil Knight, un piccolo imprenditore che nel 1971 aveva il
progetto di mettersi a costruire scarpe sportive. Casualmente all’Università di
Portland in Oregon incontrò Carolyn Davidson, una studentessa di design che un
po’ per gioco e un po’ seriamente si offrì di inventare un nome e un’immagine
per i suoi prodotti. Chiese due dollari all’ora per il suo lavoro e per Knight
fu probabilmente un affare. La ragazza ci lavorò 17 ore e ci guadagnò 35
dollari. Ma Knight, che fino ad allora vendeva scarpe esponendole sul pianale
posteriore abbassato della propria auto, con la dea alata Nike e lo swoosh
dell’ala stilizzata decollò verso un grande successo e la Nike è oggi una delle
prime multinazionali del mondo.
Un
compromesso su questa singolare vicenda del logo infine lo ha enunciato con un
singolare punto di vista Valentina, come sempre assolutamente lontana
dall’ideologizzare i propri ragionamenti:
“Il Logo di per sé non ha alcun ruolo
negativo, tant’è che negli ultimi anni iniziano a comparire loghi di prodotti e
alimenti che proprio nella garanzia dei diritti dei lavoratori e delle tutele
ambientali basano la propria specifica qualità offerta al consumatore. Insomma,
un logo, cioè un nome e meglio un’immagine per rappresentare un prodotto o
un’attività commerciale, mi sembrano normali e accettabili. D’altronde - ci
spiega Valentina - la scelta viene da lontano. Addirittura, già ai tempi
dell'antica Roma i primi negozi trovarono rapidamente un buon metodo per fare
propaganda alle proprie merci: l'uso di figure. Le latterie si facevano
riconoscere con un’insegna dove era abbozzata l’immagine di una mucca, le
macellerie esponevano il disegno di una fila di prosciutti, i calzolai
esponevano un'insegna con uno stivale. Successivamente si arrivò ad aggiungere
un nome che però doveva essere breve, facile da ricordare. Per parecchi secoli
tutto ciò fu comunque indispensabile perché la quasi totalità dei possibili
acquirenti era analfabeta, e solo figure e brevi simboli grafici di facile
riconoscimento li mettevano in grado di riconoscere un particolare prodotto “.
Valentina
aggiunge che lei stessa ha sperimentato i diversi possibili messaggi che il
logo può veicolare. Collaborando con la
cooperativa di donne indiane povere che si erano date l’obiettivo di
autoprodurre alcuni tipi di prodotti di vestiario e di utensili per la casa,
aveva costatato l’entusiasmo con cui il gruppo aveva deciso di scegliere un
proprio logo come sinonimo di autogestione e affrancamento dalla povertà e
dalla dipendenza economica. Ed era stata una scelta semplice che aveva
entusiasmato tutte: una specie di sole raggiante costituito da una serie di
mani aperte che si uniscono in cerchio ed al centro una semplice linea curva
che rappresenta una bocca che sorride. Le donne che si erano unite in quella
attività artigianale i cui prodotti si erano subito diffusi con successo in
vari villaggi della zona e addirittura al di fuori del paese grazie anche
all’aiuto di Valentina e di Hope, avevano riacquistato il sorriso, una ragione
di vita e un senso di comunità, oltre a qualche migliore possibilità di
sopravvivenza per tutte.
Ma
il logo – ci ricorda Valentina - non ha una doppia faccia, segue il destino di
quello che rappresenta e bisogna fare ben attenzione a cosa si sceglie. Basta
pensare a movimenti politici o partiti che magari dopo un momento di gloria si
sono rivelati insignificanti e sono finiti ai margini. Il loro logo, come i
loro capi, diventano il segno visibile e indimenticabile del loro insuccesso ed
è difficilmente recuperabile con lo stesso logo e gli stessi capi, il consenso
perduto. Tant’è che alcuni, magari per cambiare solo l’immagine restando gli
stessi, per prima cosa cambiano il nome del gruppo ed il suo logo. E non si può
comunque diffondere sul mercato un logo in contraddizione con la propria
immagine che si vuole presentare al pubblico. Valentina ricorda bene quel
famoso Guru che in India, già nella fase calante della propria vicenda storica
si presentava in pubblico o in foto esibendo come una collezione una serie di
automobili Rolls Royce quasi mostrate come proprio singolare logo. Un triste
tentativo di presentare e trasmettere un’immagine di forza da comunicare agli
altri. Qualcosa da proporre che in realtà si era già dissolto.
*
La
gestione commerciale di un marchio (brand) per aumentare il valore percepito di
un prodotto e favorirne l’acquisto è una disciplina commerciale nata e
sviluppata all’inizio del ‘900 dalla società Procter & Gamble fondata a
fine ‘800 dal candelaio inglese William Procter e dal saponiere irlandese James
Gamble. La società cresce nei primi decenni del secolo nel settore del
benessere e di vari beni di consumo famigliari dedicando per la prima volta una
forte attenzione e un rilevante investimento nella pubblicazione del proprio
marchio originario e poi di diversi specifici marchi progressivamente inventati
o assorbiti dalla società nei più diversi settori. Dai prodotti Vicks per il
raffreddore a Pantene per i capelli, da Tampax per l’igiene intima a Iams per
gli animali, da Gillette per la rasatura a Pampers per i neonati, da Dash per i
detersivi ad AZ per i dentifrici e molti altri.
La pubblicizzazione del Logo del prodotto diventa impegno centrale
mentre l’attività produttiva diventa quasi marginale e progressivamente viene
delocalizzata in aree periferiche del pianeta dove salari, condizioni e orario
di lavoro, impatto ambientale dell’attività, hanno minori controlli e
attenzione.
Nel
1997 il regista Michael Moore nel suo documentario The Big One ha analizzato i
metodi adoperati dalla Procter & Gamble per ridurre il personale a
Cincinnati con migliaia di licenziamenti, delocalizzando in paesi periferici
pur avendo avuto negli ultimi tre-quattro anni sei miliardi di dollari di
profitti. P&G nella attività di pubblicità televisiva e radiofonica dei suoi
marchi è stata il soggetto inventore della soap opera, serie di racconti di
vita quotidiana connessi alla pubblicizzazione dei propri prodotti. Una
rinomata produzione della P&G in USA è stata Sentieri, che conta dal 25
gennaio 1937 più di 15000 puntate. In Italia Mediaset ne ha trasmesse circa
700. Con il saggio No Logo di Naomi Klein il ruolo che la pubblicizzazione del
Logo e del Brand hanno assunto da parte di decine di multinazionali negli
ultimi decenni del secolo scorso è diventato argomento di rilevo nella critica
del comportamento di quelle aziende rispetto alle condizioni di lavoro e di
sfruttamento dei lavoratori, compreso l’uso dei minori e l’indifferenza alle
problematiche dell’inquinamento ambientale delle produzioni. No Logo diventava
anche un riferimento diffuso nel cosiddetto Movimento No Global che emergeva alla
ribalta dell’attenzione mondiale con le grandi manifestazioni contro la
Conferenza del WTO a Seattle del novembre 1999.
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