Tre mesi all’ora X - capitolo 5


I sopravvissuti

“Ciao piccolo, spero che tu ti stia già preparando per la grande festa di stasera!”

” Che cosa, che festa, ah già, certamente sì “. 

Solo una persona può chiamarmi così, sorvolando sul mio metro e ottanta di altezza e telefonarmi a casa alle otto in punto di un sabato mattina nuvoloso di fine ottobre. Naturalmente è lei, Marta, la guerriera a tempo pieno e mentre ritorno a letto dopo aver afferrato il cordless che suonava tre stanze più in là comincio a svegliarmi e a capire di che si tratta. Marta domani compie 48 anni e il giorno dopo presenta a teatro l’ultima sua fatica di scrittrice, sociologa, regista teatrale e non so bene che altro scaturisca dalla sua instancabile testolina. Sono invitato per questa sera alla cena di compleanno in uno dei locali più frequentati del momento e per la sera dopo ho ricevuto il biglietto per un posto in prima fila a teatro dove presenta il suo ultimo spettacolo. Parla di donne maltrattate, di mogli in crisi famigliare e di uomini in crisi di nervi. Insomma, sono sistemato per il week-end e malgrado sia ancora un po’ frastornato dopo il mio ritorno da Mosca, a Marta non è possibile dire di no. Non la sentivo da due settimane e mentre le chiedo se è consentito andare alla festa di compleanno e ad una prima teatrale con i miei jeans made in Russia ed i miei inseparabili scarponcini da camminata, non posso fare a meno di pensare che la conosco da più di 30 anni. Di qualche anno più giovane di me aveva poco più di 16 anni quando, liceale da combattimento, organizzava le occupazioni, del suo liceo prima, delle case con le donne operaie poi, nei mesi roventi del 1968.

Sempre amici e mai nulla di più, i nostri rapporti erano diventati un po’ più difficili negli anni successivi al ’68. Marta aveva accentuato i suoi toni un po’ massimalisti e parecchio movimentisti quando i nuovi gruppi giovanili, che poi arrivarono al cosiddetto movimento del ’77, iniziarono a portare il paese ad un livello più alto di tensione sociale. Dopo gli avvenimenti a Bologna in marzo, con l’uccisione di un giovane negli scontri e dopo il convegno di settembre sempre a Bologna, mi sentivo del tutto estraneo alla deriva estremista dei cosiddetti gruppi dell’autonomia e all’evidente minoritarismo violento di alcuni di questi gruppi. Ma il movimento del ’77, come venne chiamato da più parti, aveva una sua componente creativa, tipo teatro di strada, radio libere, azioni improvvisate. La sua somiglianza con il ’68 secondo me non andava molto più in là, ma sorprendentemente questo aspetto, rilevante soprattutto all’inizio, coinvolse un po’ inaspettatamente Marta, ormai giovane laureata in scienze politiche con propensione alla sociologia moderna che nella versione più radicale aveva fatto strada inizialmente alla Facoltà di Trento. In realtà già dall’inizio degli anni ’70 dai movimenti giovanili sopravvissuti al ’68 e dai mille diversi rivoli che  ne erano scaturiti nel decennio successivo era emerso, con sempre maggiore impeto anche il germe malato dell’estremismo violento fino alla tragedia finale del terrorismo  e dei gruppi armati che nelle diverse sigle, dalle Brigate Rosse a Prima Linea, avevano portato alcune migliaia di persone alla clandestinità e avevano prodotto un migliaio di morti da una parte e dall’altra della barricata, accompagnato, o meglio preceduto, dalla cosiddetta strategia della tensione alimentata da gruppi dell’estrema destra. Un contorto disegno di legami e infiltrazioni ancora oggi mai chiariti, a 30 anni di distanza, con i cosiddetti servizi deviati di settori dello Stato. 

Marta, probabilmente in modo del tutto inconsapevole, aveva pagato il suo piccolo tributo a questo decennio impazzito le cui conseguenze si manifestarono forse più chiaramente negli anni successivi.
Per aver ospitato e nascosto per qualche giorno un amico, o forse qualcosa di più, ricercato in Val di Susa per alcuni scontri violenti e le loro conseguenze anche verso alcuni esponenti delle forze di Polizia che ne erano stati coinvolti, venne arrestata ed accusata di favoreggiamento nei confronti di un ricercato e quindi alla fine del 1974 condannata a un anno di reclusione. In realtà con il ricorso promosso dall’avvocato e da una più chiara lettura degli avvenimenti venne poi assolta passando comunque più di sei mesi in reclusione prima di essere prosciolta da qualunque accusa. È stato allora che il rapporto con me si era in qualche modo rinsaldato. Avevo comunque deciso che, in attesa delle conclusioni definitive del processo, non l’avrei abbandonata, decidendo di andare a farle visita tutte le volte che potevo.  

I primi mesi era stata rinchiusa nel carcere di Alessandria ed era più semplice per me andare a trovarla. In realtà si trattava di una piccola sezione femminile staccata del Carcere Don Soria. Eravamo alla metà degli anni ‘70 e la situazione nelle carceri era tesa ed esplosiva. Carceri vecchie, detenuti in eccesso e numerose sommosse e proteste dei detenuti comuni, in genere con l’obiettivo aggregante della richiesta della Riforma carceraria. A questo si aggiungeva la presenza in aumento di detenuti politici provenienti dai gruppi estremi e dalle organizzazioni armate come le Brigate Rosse, emerse all’inizio del decennio, e poi il nascente gruppo di Prima Linea. Al momento dei fatti che avevano coinvolto Marta il clima politico era in subbuglio anche a causa della campagna elettorale sul divorzio che divideva il paese. I muri delle città erano ricoperti dai manifesti delle diverse forze politiche che invitavano a votare oppure NO al referendum per il divorzio della domenica 12 maggio 1974. Singolare che chi voleva il divorzio doveva votare no e chi non lo voleva doveva votare sì. Era la prima volta che si votava per un referendum abrogativo, dopo quello costituzionale del 1946 in cui si era scelto cosa si preferiva tra Monarchia e Repubblica. E proprio il venerdì a ridosso del voto una grave sommossa era scoppiata nel carcere maschile di Alessandria. Tre detenuti comuni si erano rinchiusi nell’infermeria armati di due pistole e un coltello prendendo in ostaggio, oltre ad alcuni altri detenuti, tre membri del personale: un brigadiere, un medico, ed una assistente sociale. Le richieste dei detenuti, con l’obiettivo della libertà, neppure ben messe a fuoco, erano state decisamente respinte. Il Piccolo, giornale locale molto diffuso, aveva ben riassunto la posizione delle Istituzioni: “Lo Stato non tratta, soprattutto in un momento in cui la sicurezza dello Stato stesso è in serio pericolo per il serpeggiare di un ribellismo sovversivo di stampo terroristico che si sta organizzando un po’ ovunque e che in questa zona ha già dato dimostrazioni di efferatezza con omicidi e sequestri di magistrati e dirigenti d’azienda.” 

La vicenda si era conclusa con una incursione di forze speciali, un’intensa sparatoria e con i tre rivoltosi e quattro ostaggi morti. Qualche giornale aveva accennato ad errori e ad un eccesso di dimostrazione di forza da parte dello Stato. Mentre si esultava per la vittoria dei No, cioè per il sì al divorzio, il caso di Alessandria era uscito rapidamente dalle cronache ma il funzionamento della struttura venne rivisto ed anche l’area delle detenute era state coinvolta. E così Marta, non si sa perché, venne spostata da un piccolo carcere del nord Italia e mandata nel carcere romano di Rebibbia, ben più grande e con una ben maggiore carica di tensioni. Fu lì che Marta fece conoscenza con alcune recluse di area brigatista. La conoscenza non ebbe effetti molto positivi. Marta non le sopportava e me lo disse chiaramente quando, senza scoraggiarmi per la maggiore lontananza, andai a trovarla più volte viaggiando in treno la notte del venerdì all’andata e del sabato al ritorno.
Sopravvisse a quel periodo buio della storia italiana dopo esserne stata pericolosamente sfiorata e la sua distanza dai gruppi violenti si fece più netta. Quasi in modo inconsapevole si avvicinò di più a me che, seppure da posizioni radicali comunque avevo fin dall’inizio manifestato la mia dissociazione dall’estremismo ed allo stesso tempo ero stato la persona a lei più vicina in quel periodo difficile. 

Siamo sopravvissuti, mentre alcuni si facevano coinvolgere dall’ebbrezza malsana della violenza, e altri sbandieravano la lotta ai gruppi armati come vessillo che copriva tutti i mali e gli inganni, assolvendo una intera classe politica. In mezzo non c’era, anzi non doveva esserci un'altra lettura della realtà.  In realtà in molti non eravamo affatto favorevoli a scegliere fra i poli di questo inevitabile bipolarismo. Lontani dall’idea stessa di valutare come una possibilità di cambiamento la violenta pratica delle uccisioni e delle gambizzazioni ma anche dalla integrale assoluzione di un apparato statale e sociale che in tante occasioni aveva espresso di non tollerare le ragioni della critica a disuguaglianze e ingiustizia. Della mia estraneità ad entrambi i fronti, che già di per sé era considerata improponibile, ne ebbi chiara consapevolezza quando venni coinvolto quasi per caso nella campagna di dissuasione dal terrorismo che alcune aree dei movimenti più radicali svilupparono per alcuni mesi per favorire o forse meglio accelerare la disgregazione dei gruppi armati che era già in corso sia per l’isolamento sociale ma anche per i primi episodi di pentitismo. La campagna che alcuni denominarono” né con lo stato né con il terrorismo” era in realtà un timido tentativo di riaprire spazi di contestazione al sistema sociale su un terreno democratico e pacifico che i gruppi armati non solo rifiutavano ma concretamente volevano a tutti i costi impedire. La campagna di dissuasione infastidiva molto anche l’altro fronte secondo il quale non poteva esserci una terza possibilità di spazio e azione politica. Un episodio che mi coinvolse personalmente mi rese consapevole di quanto fosse difficile mantenere questa terza posizione. Accadde che un giorno mi venne proposto di partecipare ad un dibattito appunto sulla possibilità che “appelli alla diserzione“ dai gruppi armati potessero essere uno strumento per interrompere quella scia di sangue e uccisioni che da anni coinvolgevano il paese. Il dibattito doveva svolgersi nei locali di una nota emittente televisiva con la partecipazione in studio di un noto giornalista di un’importante testata che promuoveva il dibattito e di un sacerdote che insieme a me interloquiva con il Ministro competente sul tema, collegato in audio da Roma. I promotori della campagna, alla quale aderivo, mi dissero chiaramente che la partecipazione al dibattito presupponeva la possibilità di rischi concreti. Da una parte la minaccia esplicita di aggressione promessa da ambienti vicini ai gruppi armati, dall’altra una possibilità di contestazione, non meglio precisata, da parte della Digos, la specifica sezione della Questura competente sul tema. Partecipai alla trasmissione, che mi sembrò ben riuscita, forse con eccessiva tranquillità. Al termine della stessa, tornato a casa, rassicurai i miei amici: non mi avevano né gambizzato né arrestato.  Ho riflettuto per anni, in diverse occasioni, su quanto l’azione dei gruppi armati abbia condizionato e paralizzato le possibilità di cambiamento nel paese, fornendo anzi argomenti insidiosi per giustificare la sopravvivenza dello status quo. La festa di compleanno di Marta, che non vedo da molti mesi, mi ha riportato alla mente fatti e riflessioni che non ho dimenticato, sebbene siano passati più di venti anni. 

Alla cena della sera partecipano alcune decine di persone, la maggior parte delle quali probabilmente legate all’appuntamento teatrale di Marta di domani sera. 

“Ciao piccolo, era ora che potessi di nuovo abbracciarti e vedere di persona come stai! “

E’ Marta che appena mi ha visto arrivare alla sua festa, elegantissima e avvolta in una nuvoletta di delicatissimo profumo, mi si fionda al collo abbracciandomi calorosamente.

“Sto bene direi, sopravvivo. Sopravviviamo ...” 

*
Dopo gli anni delle lotte operaie e studentesche del 1968-69 ebbe inizio un periodo sanguinoso avviato con le stragi tutte attribuite a gruppi eversivi di estrema destra. Da Piazza Fontana (dicembre 1969) alla Stazione di Bologna (agosto 1980) solo negli otto episodi più noti si contarono 135 morti e circa 600 feriti.  Ma un intero decennio vide la forte diffusione di gruppi armati e clandestini di estrema sinistra. Si stima che le Brigate Rosse e loro frange dissidenti arrivarono a 1200 adesioni, provocarono almeno 86 omicidi e decine di ferimenti fra il 1969 e il 1982. Dopo l’omicidio del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro iniziò la lenta crisi e disfacimento del gruppo. Il gruppo di Prima Linea, nel momento di massima espansione alla fine del 1977, contava circa 2000 aderenti armati e operanti in una situazione di semiclandestinità. Nel periodo fra il 1976 e il 1981 fu responsabile di almeno 16 omicidi e un centinaio di attentati e ferimenti.  A differenza di altri paesi europei nel periodo successivo al 1968 in Italia la tensione sociale si mantenne elevata per almeno 10 anni con particolare acutezza nel biennio ’77-‘78.   
Soltanto nell’ anno 1977 per attività politica si contarono quarantamila denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati per alcune migliaia di anni in totale. La presenza dei gruppi armati non favorì affatto ma probabilmente bloccò lo sviluppo delle riforme sociali che indirettamente erano state avviate in seguito ai movimenti sociali del 1968-69 (a cominciare dallo Statuto dei Lavoratori). Le leggi antiterrorismo che limitavano le libertà democratiche, dalla Legge Reale del 1975 che fra l’altro rendeva più facile la libertà di sparare delle forze dell’ordine, alla Legge Cossiga del 1980 che aumentava i poteri dello Stato nella difesa dell’ordine pubblico, negli anni successivi, malgrado forti contestazioni, furono largamente accettate ed approvate dagli elettori anche  in due diversi referendum abrogativi. 

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