La Turkmena
“Dove
siamo?”
La
domanda la faccio con tutta la faccia di bronzo che mi riesce di fare. Lo so
che è una domanda un po’ strampalata e so che anche lei inevitabilmente lo
penserà ma corro il rischio. Da ore mi annoio, circondato da signori e signore
benvestiti che sfogliano testi inesistenti di riviste insignificanti. Ho letto
tutto quello che avevo da leggere e mi annoio. O forse la verità è che lei è
bellissima, elegante, quasi fuori posto, sembra come una marziana calata in un ambiente
ostile e mi sono stufato di rispondere solo sì o no o grazie alle sue ripetute
domande. Così, nel mio stentato inglese, ho trovato la domanda più stupida
che potessi fare per uscire dallo schema e chiederle direttamente qualcosa che
non è strettamente previsto dalla tranquilla superficialità del contesto.
Ha capito benissimo la domanda, strizza gli
occhi per un attimo spalancando quelle sottili e allungate fessure che la
rendono così affascinante insieme al modo così tranquillo e pacato di muoversi
nel suo attillatissimo vestitino blu, con quella camicetta bianca che appena
compare nel solco sotto il collo. Sembra un po’ imbarazzata dalla difficoltà a
darmi una risposta precisa, mi fa un sorriso extra large, mi mostra per un
attimo il palmo delle due mani sollevate chiedendomi di attendere e si
allontana. Dopo almeno due o tre minuti ritorna, occhi di nuovo rilassati e un
lieve sorriso sul viso.
“Belorus...
siamo a circa seimila metri sopra la Bielorussia, abbiamo superato Minsk e ci
stiamo avvicinando al confine con la Russia. Fra circa un’ora, superata
Smolenks, arriviamo allo Sheremetyevo Airport di Mosca”.
Attende eventuali
osservazioni o qualche altra domanda, secondo me ben consapevole che si trattava
di un pretesto, poi sorprendentemente rompendo di nuovo anche lei le procedure
standard mi chiede: “Un ora sarà lunghissima, vuole qualcosa da bere?”. Si allontana al mio assenso e per l’ennesima
volta non posso fare a meno di osservare la grazia pacata con la quale sfila
lentamente lungo il corridoio senza fine dell’A320 della Aereoflot, il nome
mantenuto dalla compagnia aerea dopo la nascita della Federazione Russa che è
il nuovo nome della vecchia Unione Sovietica. Ne fanno parte altre nove delle
quindici nazioni originarie dopo il crollo della fine degli anni ’80.
Mai
avrei pensato che a tre mesi dalla fine di questo millennio, o più esattamente
all’inizio di ottobre del 1999, sarei andato a 51 anni, per la prima volta
nella mia vita, a Mosca. Il volo da Torino a Mosca passando attraverso Parigi è
relativamente breve. Sono meno di 3000 chilometri, poco più di quattro ore. Tenuto
conto del cambio di volo a Parigi e del fuso orario, che si sposta di due ore in
avanti, sono partito alle 11 del mattino e arriverò a Mosca verso le 14,30 del
pomeriggio.
In
questo inizio di ottobre il clima è ancora gradevolmente mite. Sono un po’
agitato perché la scadenza è impegnativa. In Russia per lavoro, per la prima
volta in un incontro fra chimici e biologi italiani francesi e spagnoli con
questo gruppo di ricercatori russi di un famoso Centro di ricerca che all’epoca
dell’Urss raccoglieva ben 500 ricercatori, oggi ridotti a meno di un terzo. Alcuni
li conosco ormai da mesi in modo virtuale via internet, da quando mi hanno dato
il compito di coordinatore degli esperimenti in piccoli reattori di ricerca che
si svolgono prevalentemente a Mosca (dove costano, sembra, meno di un terzo che
da noi). Loro fanno le prove, mi mandano
i dati, io li analizzo e li giro anche a francesi e spagnoli con le mie
osservazioni e con le proposte di nuove prove da tentare. In fin dei conti mi
diverto e l’azienda ha trovato il modo, rientrato in fabbrica dopo alcuni anni
di distacco, di tenermi lontano dai reparti dove per quasi trenta anni ho fatto
il tecnico e insieme il delegato di reparto, in particolare occupandomi dei
problemi ambientali e di sicurezza sul lavoro.
A 50 anni compiuti ho girato un bel po’ in vari paesi del mondo ma mai
avrei pensato, ne desiderato, di andare nella ex Unione Sovietica. Non mi
piaceva prima, ai tempi di Breznev e degli altri e non mi piace adesso con
questo Boris Eltsin che nella nuova Russia, messo da parte il mite Gorbaciov,
da quasi dieci anni ormai combina un guaio dietro l’altro. Forse proprio per
questo sembra ben tollerato dall’intero Occidente ma sempre meno da alcune
centinaia di milioni di russi. Sempre più in difficoltà, la carriera di Eltsin,
accusato di amare troppo l’alcol, il fumo, le donne e le tangenti, sembra al
termine. Il suo ruolo di Presidente della Federazione Russa diventa sempre più
debole ed il suo delfino Vladimir Putin, ex agente del KGB, da tre mesi
nominato Primo Ministro, per quanto semisconosciuto all’Ovest, sembra essere il
nuovo astro nascente della Russia.
Mancano
solo tre mesi alla fine del 1999 e per quanto sia poco sensibile agli
anniversari, agli eventi mediatici ed alle feste ufficiali, confesso che la
scadenza del cambio di secolo, di millennio e di fase storica mi mette in
agitazione. Con il crollo dell’Unione sovietica ci troveremo, dicono i più, in
un nuovo Eden di pace e prosperità, fuori dalla guerra fredda. Un’aspettativa
che quasi mi emoziona e di certo mi incuriosisce. Cambierà tutto nel mondo?
Anche
il viaggio a Mosca in fin dei conti mi sembra un mio piccolo personale evento
del tutto inaspettato e gradito. Negli ultimi trenta anni ho viaggiato in più
parti del pianeta, parecchie volte in India per andare a trovare Valentina e
Speranza nel bel villaggio ancora disseminato di belle costruzioni di origine portoghese
fra Goa e Bombay (che da qualche anno si chiama Mumbai grazie ai nazionalisti
Indù). Per quanto abbia letto molto dell’Unione Sovietica e della nuova Russia,
mai avrei pensato di finire da solo, e così lontano di fatto da Valentina,
dalle parti della Piazza Rossa e dei nipotini di Lenin e Stalin.
Non
faccio a tempo a entrare in agitazione pensando a come, con il mio
stentatissimo inglese, mi gestirò lunghi incontri per quasi una settimana con
una ventina di persone che parlano almeno quattro lingue diverse e che si
incontrano per la prima volta. Arriva la mia amata hostess con un vassoio ed
una bibita che dovrebbe essere del tè freddo. Si china per porgermela ed ancora
una volta il mio sguardo cade sul piccolo distintivo, una bandiera in miniatura,
bianca blu e rossa, appuntata sulla sua camicetta bianca. Per la verità non è
esattamente quella che attira il mio sguardo ma con un po’ di faccia tosta
gliela indico.
“Sei
francese o sei russa? O magari bielorussa? “
Scoppia
in una sommessa risata scuotendo la testa e immediatamente mi rendo conto di
avere detto due sciocchezze in un'unica domanda. La prima è che chissà perché
ho ancora in testa la bandiera rossa per le repubbliche sovietiche e, venendo
da Parigi, ho pensato alle tre strisce verticali blu, bianca e rossa della bandiera
francese. Invece queste sono tre strisce orizzontali bianca, blu e rossa che è
invece la nuova flag della Federazione russa. La seconda è che la Bielorussia è
una patria improbabile per questa bellissima donna dagli occhi piccoli e un po’
allungati tipicamente asiatici che casomai potrebbero provenire dalla Mongolia.
“Non
sono russa, sono turkmena di origine ma vivo fra Mosca e Parigi, spesso fra le nuvole.
Mi chiamo Anna e questa è la bandiera della Federazione Russa. E di Aeroflot, ovviamente.
“
Dei
turkmeni e del loro paese non so pressoché nulla se non che questi “turchi
meridionali”, che un tempo si chiamavano anche turcomanni, si sono staccati
quasi dieci anni fa dall’Unione sovietica al momento del crollo, hanno
ereditato il capo locale del regime comunista come Presidente e dittatore
inamovibile e se la cavano a sopravvivere grazie ai giacimenti di gas.
Ci
scambiamo un grande sorriso, le chiedo come arrivare al centro di Mosca e mi
conferma che alla fine mi conviene un taxi, possibilmente di quelli ufficiali.
Mi saluta e si allontana verso il fondo del corridoio.
Dopo
meno di mezz’ora comincio a sentire che si scende di quota. Intravedo Anna un’ultima
volta quando ripassa lentamente per il corridoio a controllare che tutti siano
svegli e si stiano allacciando le cinture per l’atterraggio. A Mosca ci deve
essere il sole perché scesi sotto le nuvole raggi luminosi filtrano nella
cabina dai finestrini. Anche dalla hostess adesso seduta tranquilla a fondo
corridoio emana una lievissima scia di luce e di stelline sfavillanti. O almeno
così mi sembra...
*
Ufficialmente l’Unione Sovietica è nata il 30 dicembre 1922 sulle ceneri dell’impero zarista dopo la guerra civile russa e due precedenti rivoluzioni fallite nel 1905 e 1917. Il nuovo Stato, una federazione di 15 repubbliche in territorio europeo e asiatico, era di gran lunga il più grande del mondo con i suoi 22 milioni di km2 di territorio, circa un sesto delle terre emerse del pianeta.
L’Unione
delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è durata 69 anni, un po’ meno dell’età
media di un abitante della parte Occidentale dell’Europa. Si è sciolta
definitivamente il 26 dicembre 1991 dopo un tentativo fallito di colpo di stato
contro Michail Gorbaciov che riteneva possibile una democratizzazione graduale
della Federazione. Già prima, nel mese di giugno, la Repubblica della Russia si
era dichiarata indipendente sotto l’azione di Boris Eltsin con il quale si
ricostituì una nuova Comunità di Stati Indipendenti (CSI) con l’adesione di
altre 9 delle 15 Repubbliche che costituivano l’Unione Sovietica (Armenia,
Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Tagikistan, Uzbekistan,
Georgia e Turkmenistan come associato). La sola Russia ha una estensione di 17
milioni di km² di territorio e circa 145 milioni di abitanti. La lingua
ufficiale della CSI è il russo.
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