Denis Villeneuve, nell’universo noir dei replicanti



Intervista. Il regista racconta «Blade Runner 2049», il suo sequel del film di Scott, ovvero come affrontare un mito. 





2049 il mondo è cambiato ancora in peggio. La polizia di Los Angeles mantiene la squadra speciale di «blade runner» preposti a braccare e neutralizzare i replicanti clandestini ancora latitanti malgrado la banda di ammutinati di Rutger Hauer sia stata sterminata da tempo. Nel corso di un’indagine l’agente K (Ryan Gosling) è sulle tracce di un collega ormai in pensione. Rick Deckard, il detective marlowiano interpretato da Harrison Ford, verrà  infine rintracciato, eremita e un po’ arrugginito, nel deserto post apocalittico e radioattivo. Ma forse è invecchiato meglio lui dell’allegoria morale sui replicanti che in un mondo post Her e post District 9, ha un retrogusto rétro anni Novanta.

Ai comandi del sequel del cult c’è Denis Villeneuve che ha raggiunto il successo internazionale con Sicario e Arrival, e si trova ora a rispondere alla domanda che tutti gli fanno sulla soggezione che si prova a mettere mano a un film «mitico». Come risposta si trincera dietro a una battuta: «Non volevo che qualcun altro lo rovinasse. Amo troppo quel film».

Nel 1982 il primo Blade Runner aveva visualizzato in modo tangibile e sensoriale una Los Angeles proiettata nel futuro come crogiolo distopico inzuppato di monsoni e, allo stesso tempo, immersa nell’idioma noir  inconfondibilmente connesso alla storia della città e del suo cinema. Una rivoluzione nell’immaginario futuribile e urbanistico che trentacinque anni dopo, il regista québécois si è trovato a proseguire in un film sommamente «atmosferico» in cui, spiega lo stesso  Villeneuve, «la storia si svolge sì a Los Angeles, ma stavolta anche in alcune location limitrofe, quindi esiste la possibilità di espandere il linguaggio visivo creato da Ridley».

A questo proposito la lente di Roger Deakins omaggia filologicamente la cinematography  di Jordan Cronenweth nell’originale, anche se alla distopia urbana si affianca quella inevitabile di una California post disastro climatico. Ryan Gosling è il protagonista ma è ancora Deckard il cuore emozionale della storia che potrebbe o meno (e per capirlo saranno probabilmente necessarie  ripetute visioni del film di 2 ore e 40) risolvere una diatriba fondamentale: se il personaggio di Ford sia o meno egli stesso un replicante.

È una questione,come ricorda Villeneuve, che divide ancora Ridley Scott e Harrison Ford – («androidista» il primo, rigorosamente «umanista» il secondo). Il regista preferisce nicchiare: «Nel testo originale di Philip K. Dick, la paranoia e il dubbio sono fondamentali, e credo sia questa la chiave giusta. Quella che mi interessa non è la risposta ma la domanda». Gli fa eco Harrison Ford: «Non si tratta di un pacchetto che chiudi con un bel fiocco. Il nostro film è un indagine emozionale, un viaggio. Ci sono dei contorni solidi ma non sempre. Molti passaggi sono accennati seppure drammaticamente, rimangono ai margini e in questo modo confermano la ricchezza del tessuto. Non tutto è al centro della narrazione. Però anche quando certi aspetti non vengono sviscerati direttamente, contribuiscono comunque all’esperienza visiva ed emotiva di questo futuro immaginato».


Ma al centro rimangono pur sempre loro, i replicanti, no? 
 
In questo mondo i replicanti sono oggetti prodotti dalla bio ingegneria, sono identici agli umani ma con emozioni «sfasate»; non hanno l’esperienza necessaria a una maturità emotive. Sono comunque una nostra  immagine speculare. È quello che mi è sempre piaciuto della sceneggiatura, la stratificazione dei significati. E uno degli strati riguarda proprio la segregazione dei diversi , le caste, la schiavitù e il concetto di cittadinanza. Poi penso che anche il primo film fosse un poema sulla rabbia verso dio, colui che ci ha creati senza dirci perché. Un po’ come nella storia di Frankenstein che inevitabilmente prosegue in questo film.


Una bella responsabilità comunque…

Quando ho saputo che volevano fare una sequel di Blade Runner mi è sembrata al contempo la  più fantastica, emozionante e allo stesso tempo forse la peggiore idea che avessi mai sentito. Perché si tratta di un universo che ho amato profondamente. Appena ho avuto in mano la sceneggiatura, oltre al timore,  mi sono sentito onorato che lo studio avesse avuto fiducia in me affidandomi questa regia. Non ho accettato subito anche perché c’erano dei problemi di calendario, stavo per iniziare le riprese di Arrival. E poi volevo sincerarmi che avrei potuto fare mio quel mondo. Può essere uno strano processo calarsi in un universo creato da qualcun altro. Non volevo trovarmi a fare il graffitaro in una chiesa altrui, per così dire, non volevo  essere un parassita, dovevo trovare in qualche modo la chiave per appropriarmene. Solo allora mi sono sentito a mio agio. Non è stata una decisione presa alla leggera. Ridley si è mostrato molti generoso nei miei confronti. Abbiamo iniziato con una lunga e cordiale e franca conversazione in cui mi ha parlato dei suoi riferimenti per il primo film, le ispirazioni e un po’ il dna di quel lavoro. Poi mi ha detto: «Questo film invece è tuo. È interamente sotto la tua responsabilità. Se hai bisogno chiamami ma altrimenti non ti sarò di intralcio.  E di questo gli sarò sempre grato. Non sarei riuscito a lavorare se avessi sentito Ridley dietro le spalle. È un maestro ma abbiamo sensibilità anche molto diverse.


Ha cercato di rimanere fedele all’originale?
 
Sì, Blade Runner 2049 tiene decisamente fede allo spirito del primo Blade Runner e alla sua estetica «noir». È ancora un poliziesco,  un giallo esistenziale, una storia di detective immerse in quell’inconfondibile atmosfera  fatta di luce impressionista: abbiamo voluto rispettarli perché l’abbiamo talmente amati.   Il mio film in fondo  è un estensione dell’originale e in parte una nuova esplorazione di quel mondo. Gli effetti speciali del primo film, firmati da Douglas Trumbull, rimangono fra i migliori della storia del cinema. Io e la troupe eravamo dei grandi fan, e girare Blade Runner 2049 è stato per noi come scrivere una lettera d’amore al «prototipo».


Cosa ha significato per lei il film di Scott? Quando lo ha visto?
 
È stato un film cruciale, inestricabile dalla mia passione per il cinema. L’ho visto da giovane, da adolescente, a tredici-quattordici anni, quando cominciavo a sognare di fare il regista. All’epoca eravamo affamati di  buona fantascienza. Quando è uscito Blade Runner poneva dei quesiti inediti sull’umanità e segnava un nuovo modo di intendere la sci-fi. Non si era mai vista allora un’operazione come quella di Ridley Scott che mescolava il genere noir con la fantascienza. Per noi fu una rivelazione. Io e i miei compagni  diventammo fanatici di Blade Runner, per la prima volta ci sembrava che qualcuno avesse creato un futuro plausibile, un mondo in cui si stratificavano in modo coerente  passato presente e futuro. Un futuro in cui il passato era ancora vivo, rappresentato da quelle pubblicità di marchi  che conoscevamo; era un estetica inconfondibile e prorompente.


È tornato a leggere il romanzo originale di Dick?

Sì. Ridley si è allontanato da quel  testo ma per me il libro è rimasto una guida per orientarmi in quel mondo futuro. Mi ha aiutato, ad esempio, con le questioni legate al personaggio di Deckard. Nell’originale secondo Harrison, Deckard è umano ma secondo Ridley è sicuramente un replicante  come si evince dal suo ultimo final cut. Quindi abbiamo dovuto decidere in che modo affrontare la questione, Harrison e Ridley sono ancora lì che ne discutono. Così per risolverla sono dovuto  tornare alla fonte, a Philip K. Dick, ai dubbi che i suoi personaggi, perfino i detective, hanno sulla propria identità – a volte non sanno loro stessi se sono androidi o umani.  Questa sottile ambiguità è diventata la chiave del film. Personalmente preferisco quando nel cinema il mistero e i dubbi sovrastano le certezze e le risposte.


* da il manifesto 1 ottobre 2017

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