‘Horizon-An American Saga capitolo 1’ di Kevin Costner: la resurrezione del vecchio West

Un grande sogno? Il ritorno di un'epica e un'epoca? I massacri, la Frontiera, gli inseguimenti a cavallo, i coloni, le vedove, gli schiavi cinesi. La nascita di una nazione sul sangue (di tutti) e il cuore di un cineasta innamorato. Titanico

di Luca Barnabé ( Corriere - 6 luglio 2024 )

Horizon An American Saga di e con Kevin Costner: la prima parte è nei cinema.

La Frontiera, gli spazi sconfinati del West, la violenza degli uomini. L’eroismo di pochi e frammenti di romanticismo. Kevin Costner (reduce dall'abbandono di Yellowstone) torna alla regìa con il suo genere prediletto, realizza un’epopea western tra classicismo (si ispira ai maestri), modernità (il discorso sulla guerra) e guizzi sentimentali.

Non tutto entusiasma nel racconto di questo primo capitolo della saga (la seconda parte arriverà in sala il 15 agosto), ma per gli appassionati del genere è sicuramente un’opera da vedere sul grande schermo.

HORIZON: AN AMERICAN SAGA - CAPITOLO 1: TRAMA, personaggi E CAST

San Pedro Valley, Arizona, 1859. Un agrimensore con il figlio prende le misure di un terreno apparentemente disabitato a ridosso di un fiume. Alcuni pellerossa uccidono entrambi. Quell’appezzamento è denominato Horizon, orizzonte.

Quattro anni dopo, una tribù di Apache vive sui monti vicini a Horizon. Una notte, mentre i coloni festeggiano, attaccano. Pochissimi bianchi si salvano. Alcuni nascondendosi tra le rocce.

Una donna (Sienna Miller) e la figlia (Georgia MacPhail), nascoste nella cantina sotto la casa incendiata dagli Apache (il marito e il figlio muoiono) vengono salvate dal tenente Trent Gephart dell’esercito nordista (perfetto Sam Worthington).

Montana. Il taciturno cowboy Hayes Ellison (Kevin Costner) si ritrova involontariamente invischiato in un regolamento di conti. Dovrà fuggire a cavallo insieme alla prostituta Marigold (Abbey Lee) e a un bambino.

Infine, il tracker Van Weyden (Luke Wilson) guida una grande carovana di pionieri speranzosi di trovare la “terra promessa”. Mentre si sta costruendo la ferrovia che unisce l'Est al New Mexico (anche grazie agli schiavi cinesi). E i soldatini, dalle praterie, vengono spediti a combattere la Guerra Civile.

Spazi sconfinati, terre promesse, bruti violenti ed eroi del quotidiano. Ma anche sangue e bestialità. Kevin Costner torna sul grande schermo con un western molto “classico”, a tratti potente, a volte un po’ dispersivo (si ha la sensazione di un sovraffollamento di personaggi, troppi detour e “divagazioni”). Costner (ri)mette a fuoco i temi più cari come la frontiera tra sogno utopico e dura realtà, la nascita di una nazione nel sangue, le pulsioni ancestrali dell’uomo. L’eroismo delle persone “comuni”.

Il divo americano scrive (con Jon Baird), interpreta e dirige un western nel solco dei maestri John Ford, Howard Hawks, Anthony Mann, Delmer Daves e John Sturges… Ford viene spesso citato esplicitamente in certi snodi del racconto e nel visivo, in particolare alcune inquadrature (e massacri) rimandano a Sentieri selvaggi. Mentre un "tardo western" come I compari di Altman, è citato nella parte in Montana.

Estremamente e tragicamente attuale il discorso sulla “guerra” per il territorio e sulla vendetta. A volte si distinguono a fatica “buoni” o “cattivi”. Ogni atrocità (dis)umana evidente e palpabile. A oltre vent’anni dall’ultima regìa di un grande western come Terra di confine – Open Range forse da Costner ci attendevamo “di più”. La saga è spesso epica e – pare – sarà moltiplicata per 4 film-fiume. Questo primo capitolo ha molte sequenze da antologia come il primo assalto all’insediamento dei bianchi, vero capolavoro del genere western sull’assedio. Altre sequenze sono meno appassionanti (la coppia viziata e “borghese” risulta piuttosto calligrafica anche nei dialoghi).

Notevole il cast, dai protagonisti (Sam Worthington, Costner, Luke Wilson) ai comprimari (Billy Zane, Michael Rooker, Danny Huston). Comparsata per il figlio del regista Hayes Costner nei panni del giovane Nathaniel, figlio di uno dei bianchi che si insediano a Horizon. Ora attendiamo il Capitolo 2 (dal 15 agosto). Sono previsti anche un Capitolo 3 e un Capitolo 4.

 SE VI PIACE 'HORIZON', ECCO quali altri film western guardare:

Vi consigliamo di recuperare la trilogia precedente di Kevin Costner regista. Balla coi lupi (1990, Prime Video), L’uomo del giorno dopo – The Postman (1997, acquisto e noleggio su Amazon Prime Video e Apple Tv), Terra di confine – Open Range (2003, Infinity).

 


I bambini che oggi hanno 5 anni vivranno probabilmente fino a 100. Come sarà la loro vita?

 Per i bambini dei Paesi più ricchi gli 80 anni di oggi saranno i nuovi 60. Ecco come sarà la loro vita fra i progressi tecnologici e un nuovo modo di concepire la scuola, il lavoro e la pensione. 

di Tristan McConnell *  

nella foto alcuni volontari dispiegano la gigantografia di una bambina ucraina di 5 anni di nome Valeriia, realizzata nel 2022 dall’artista JR in Ucraina, a 70 km dal confine con la Polonia. Valeriia è originaria di Kryvyi Rih, la città natale del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. ( foto:JR, REDUX )

Peggy Hawkins ha cinque anni, e da grande vuole fare il pinguino. Nonostante la sua giovane età sa bene che è improbabile, ed essendo pragmatica ha delle alternative, tra cui fare la ballerina. Il suo approccio giocoso al futuro riflette l’entusiasmo e l’immaginazione sfrenata di questa allegra bambina britannica e, anche se non diventerà un pinguino, rimane praticamente certo un fatto altrettanto sconcertante: Peggy Hawkins vivrà fino a 100 anni.

Secondo i demografi, i bambini che oggi hanno cinque anni hanno la maggiore probabilità di sempre di vivere fino a diventare centenari e, verosimilmente, entro il 2050 sarà la norma per i neonati dei Paesi più ricchi (come gli Stati Uniti, l’Europa e alcune parti dell’Asia). Questa longevità significa che Peggy e altri della sua generazione vivranno una vita non solo più lunga, ma fondamentalmente diversa da quella dei loro genitori e nonni.

“Ciò che ci preoccupa del vivere a lungo è l’invecchiamento”, afferma Andrew Scott, professore di economia alla London School of Business e coautore di The 100-Year Life. Tuttavia, ritiene che i timori di uno “tsunami d’argento” - in cui i giovani lavoratori faticano per mantenere i loro genitori decrepiti e ormai non più autosufficienti - siano del tutto infondati. “Le persone vivono più a lungo, ma in media rimangono anche sane più a lungo. È incredibile che questo dato venga trasformato in una cattiva notizia”.

Un secolo di progressi nella medicina ha già allungato l’aspettativa di vita, mentre il miglioramento dell’istruzione, la crescente prosperità e una maggiore possibilità di scelta per le donne stanno riducendo i tassi di fertilità. La popolazione mondiale ha raggiunto gli otto miliardi a novembre del 2022, ma il tasso di crescita sta rallentando e si prevede un picco a metà del secolo, seguito poi da una diminuzione. Nel frattempo, la percentuale di ultrasessantacinquenni è già di uno su dieci, e negli Stati Uniti è destinata a raggiungere uno su quattro entro il 2050. In Italia, invece, raggiunge il 23% della popolazione totale, come riporta l'Istat. Inoltre, in quasi 20 anni, la quota di ultraottantenni è raddoppiata.  Quello che si prospetta è un mondo meno popolato e abitato da persone anziane.

Nel corso dell'ultimo secolo l’aspettativa di vita negli Stati Uniti è aumentata di 30 anni ma, nella maggior parte dei casi, questi ultimi non fanno altro che prolungare il periodo di pensionamento, fragilità e malattia.

“Stiamo solo allungando la vecchiaia”, afferma Laura Carstensen, docente di psicologia e direttrice del Centro sulla longevità di Stanford. Secondo lei, la strada da perseguire è diversa: “Abbiamo l’incredibile opportunità di ridisegnare le nostre vite”, dice, distribuendo gli anni in più nel corso della vita. Provate a considerarlo più come un prolungamento della mezza età che non della vecchiaia.

A 100 anni anche il golf è noioso

I 100 anni di vita di Peggy sembrano essere partiti con il piede giusto. La famiglia Hawkins è composta da lei, sua madre Hattie (insegnante di scuola elementare), suo padre Pete (artista) e sua sorella maggiore Molly (di sette anni). Vivono in un cottage nel villaggio di Marlesford, nel Suffolk. Peggy sta crescendo in una delle economie più avanzate del mondo, con istruzione e assistenza sanitaria gratuite. Ha genitori attenti e amorevoli che trovano il tempo per stare con lei e sua sorella incoraggiandole nel gioco all’aperto, nell’esplorazione e nel divertimento. “La mente di Peggy è sempre in fermento”, dice Hattie.

Con l’avanzare dell’età, la vita della bambina sarà accompagnata da progressi tecnologici quotidiani, come stampati in 3D per raddrizzare i suoi denti da adolescente, dispositivi diagnostici indossabili e biosensori per monitorare la sua salute e prevenire le malattie oppure, in età avanzata, esoscheletri bionici per alleviare i dolori muscolari. Tuttavia, affinché Peggy e la sua generazione possano godere delle opportunità offerte dalla longevità - evitando i problemi dovuti alla cattiva salute e all’esaurimento del denaro - la società dovrà necessariamente modificare il modo in cui ogni fase della vita viene vissuta. Ma non siamo nemmeno vicini a questa trasformazione.

Nella foto Conrad Heyer, di Waldoboro, nel Maine - qui ritratto in un dagherrotipo del 1852 circa - è considerato il primo nato americano ad essere stato fotografato. Quando nacque nel XVIII secolo, per gli uomini la probabilità di raggiungere i 100 anni era meno di mezzo punto percentuale. Si stima che quando questa immagine fu realizzata avesse più di 100 anni. ( Foto di collezioni della società storica del Maine )

Oggi la vita è generalmente concepita come un processo lineare in tre fasi: 20 anni dedicati all’istruzione, 45 anni al lavoro e poi la pensione. È un modello che valuta gli studenti per il loro potenziale come lavoratori, i lavoratori per la loro attività e i pensionati… Per niente. Ma se è ragionevole prevedere che si vivrà decenni in più, andare in pensione a 65 anni, per esempio, non ha più senso: da un punto di vista economico, sociale e personale. Inoltre, è noioso. Anche per il più grande appassionato di golf.

“Vai in pensione e il tuo ruolo diventa quello di scomparire. Ma non può essere così per 40 anni”, afferma Carstensen.

La vita a tre fasi è fatta per un mondo che non esiste più e sarà sostituita da “una vita a più fasi... Molto più flessibile”, aggiunge Scott. La fluidità che caratterizzerà la vita di Peggy si sta già concretizzando. L’adolescenza è un’invenzione della metà del XX secolo: prima di allora si era semplicemente bambini e poi lavoratori. Oggi, invece, sempre più giovani adulti ritardano l’uscita dalla casa, il momento di avere dei figli e l’assunzione dei molti impegni che la vita adulta porta con sé.

Lavorare per 60 anni è divertente?

Una vita progettata per la longevità parte da un prolungamento della carriera scolastica - che inizia più tardi e dura più a lungo - con anni aggiuntivi da dedicare al gioco e anni di pausa per gli studenti delle scuole superiori, in cui lavorare o fare volontariato. Lo stesso vale per l’istruzione universitaria. “Lasciamo che i ragazzi si prendano una pausa”, afferma Carstensen. “Avere anni in più significa che il ritmo della vita può effettivamente rallentare”. La formazione continuerà per tutta la vita. Alcune università offrono già un “curriculum di 60 anni” per mantenere i lavoratori aggiornati in un mercato in rapida evoluzione.

Anche il lavoro verrà reinventato. “La grande ombra che incombe sul prolungamento della vita è che non si può evitare di lavorare più a lungo”, afferma Scott. Per pagare questi anni in più, anche la vita lavorativa dovrà essere più lunga, ma più flessibile. Potrebbe prevedere lo stesso numero di ore, ma distribuite su 50 o 60 anni invece che su 30 o 40 con interruzioni di carriera, periodi in part-time e vari cambiamenti nelle diverse fasi della vita.

“Questo significa settimane lavorative di tre giorni, periodi sabbatici, permessi per crescere i figli, assistere i nipoti o i genitori anziani e poi tornare al lavoro”, afferma Sarah Harper, professoressa di gerontologia dell’Università di Oxford e direttrice dell’Oxford Institute for Population Ageing. Secondo uno studio britannico, la pandemia di Covid-19 ha dimostrato che ad oggi è possibile una flessibilità mai vista prima: la settimana lavorativa di quattro giorni sì è rivelata un successo sia per le aziende che per i dipendenti (basta pensare ai casi positivi di alcune realtà italiane che stanno già sperimentando questo modello), mentre la crescita della cosiddetta gig economy dei freelance offre un’alternativa all’obsoleto “lavoro per tutta la vita”.

Anche il pensionamento si evolverà. Il cancelliere tedesco del XIX secolo Otto von Bismark fu il primo a introdurre le pensioni in un’epoca in cui l’aspettativa di vita in Europa era di soli 40 anni. “L’equivalente di quell’età pensionabile sarebbe oggi di 103 anni”, afferma Harper. I nostri 70 anni hanno sostituito i 60 come “decennio del declino”, e quel tipo di declino si sta spostando sempre più in avanti via via che la vita media si allunga. “Per la maggior parte degli attuali cinquantenni, avere 82 anni sarà come averne 60 oggi”.

Le ultime fasi della vita lavorativa di Peggy potrebbero includere un part-time, il tutoraggio o il volontariato: tutte opportunità per essere produttivi e trascorrere del tempo con persone di generazioni diverse, contribuendo così ad abbattere le barriere sociali e quegli atteggiamenti che favoriscono l’invecchiamento. Una vita lavorativa flessibile significa anche che “i singoli individui avranno molta più responsabilità”, afferma Scott. “I bambini di oggi dovranno gestire la propria carriera molto di più rispetto alle generazioni precedenti”.

Dovranno anche occuparsi della propria salute per ridurre l’impatto delle malattie non trasmissibili che, con l'avanzare dell'età, diventano più pericolose (come l’Alzheimer, il cancro, le malattie cardiovascolari, l’artrite e il diabete). Potranno emergere nuovi trattamenti per le malattie dell’invecchiamento, ma prendere decisioni sul proprio stile di vita sarà la migliore difesa per garantirsi un maggiore allineamento tra la durata della vita in generale e la durata della vita sana: mangiare bene, fare esercizio fisico regolare, non fumare, non bere troppo.

Con la salute, poi, arrivano le opportunità. Nel suo libro del 1970 “La terza età”, la filosofa francese Simone de Beauvoir scrive che la maggior parte delle persone si avvicina alla vecchiaia “con dolore e ribellione”, considerandola peggiore della morte; la de Beauvoir, invece, trova risposta nello scopo: “Se vogliamo che la vecchiaia non sia un’assurda parodia della nostra vita precedente, c’è solo una soluzione: continuare a perseguire scopi che diano un senso alla nostra esistenza”, scrive.

Vivere per 100 anni non significa sforzarsi di rimanere giovani più a lungo, ma cercare di essere sufficientemente sani e connessi per continuare ad avere uno scopo nella vita (che sia sul posto di lavoro, in famiglia o nella comunità).

“Il modo migliore per essere un anziano che invecchia bene è essere una persona di mezza età che invecchia bene”, afferma John Rowe, citando se stesso. A quasi 80 anni, Rowe è professore di politica sanitaria alla Columbia University dopo una precedente carriera come ricercatore biomedico, professore ad Harvard nonché amministratore accademico e dirigente di un’assicurazione sanitaria. “Lavoro a tempo pieno, cerco di dare il mio contributo e sicuramente mi diverto”, afferma.

I primi cinque anni di vita - fino ad ora l’intera esistenza di Peggy - costituiscono le fondamenta della salute e del benessere futuri. La chiave per la longevità è rallentare, mantenersi in salute e trascorrere del tempo con le persone che per noi sono importanti. “I momenti più belli che passiamo insieme e in cui le bambine si animano sono quando andiamo a fare una passeggiata”, conclude la madre di Peggy, Hattie. “È lì che nascono tutte le belle chiacchierate: quando hanno tempo e spazio, improvvisamente iniziano a raccontare e a parlarci di tutto ciò che trovano interessante”.

* 15 dicembre 2023 - Questo articolo è stato pubblicato originariamente in lingua inglese su nationalgeographic.com.

 

Il rame del Reno

 di Francesca Sibani *

I bronzi del Benin, al centro del dibattito sulla restituzione delle opere d’arte africane trafugate ai tempi della colonizzazione, sono i più famosi esemplari di arte antica dell’Africa occidentale. Ma c’è un interrogativo che ha sempre lasciato perplessi gli studiosi. Da dove veniva tutto il metallo con cui erano stato realizzati?  Da uno studio scientifico condotto dal ricercatore tedesco Tobias Skowronek, pubblicato su Plos, è emerso che il rame (necessario a creare il bronzo, che è una lega di rame e stagno) era stato estratto a migliaia di chilometri di distanza, in Germania, nella valle del fiume Reno.

Quale nesso c’era dunque tra il rame tedesco e i bronzi nigeriani? Il nuovo enigma si risolve guardando alla tratta degli schiavi e all’uso di una particolare moneta, la manilla (un anello o braccialetto di varie dimensioni, ma dalla caratteristica forma a maniglia), che veniva usata dagli schiavisti di Regno Unito, Portogallo, Spagna, Paesi Bassi, Francia e Danimarca. Skowronek spiega che nel cinquecento le manilla erano prodotte in enormi quantità ed erano usate essenzialmente nel commercio con l’Africa occidentale. Un video realizzato dal magazine Wreckwatch racconta la loro storia.

Nei secoli successivi, con quelle monete fuse, il popolo edo del regno del Benin, nell’attuale Nigeria, creò le straordinarie sculture che oggi conosciamo.

nella foto: I bronzi del Benin in esposizione al British museum di Londra, 25 gennaio 2023. (Toby Melville, Reuters/Contrasto)

* da  newsletter Africana su Internazionale del 13 aprile 

Taiwan, lo spettacolare grattacielo-giardino che con i suoi 23mila alberi, assorbe tonnellate di inquinamento

 









da www.positizie.it *

A Taiwan, sta per essere completato uno spettacolare grattacielo-giardino che con i suoi 23mila alberi, assorbe l’inquinamento e purifica l’aria dalla CO2

Dopo un processo di costruzione partito nel 2010 e durato undici anni, a Taipei, capitale di Taiwan la torre Tao Zhu Yin Yuan firmata dall’architetto belga Vincent Callebaut sta per essere completata, con l’installazione di giardini pensili, cascate e dei suoi 23mila alberi. La particolarità che rende unico questo grattacielo e lo rende un capolavoro di architettura ecologica è proprio il suo incredibile numero di alberi e piante e quindi la sua elevata capacità di assorbire lo smog, sarà infatti in grado di assorbire fino a 130 tonnellate di anidride carbonica all’anno.

Il progetto di costruzione del grattacielo è stato subito pensato per essere totalmente green e avvicinarsi il più possibile ad essere ad emissioni zero. Il team di ingegneri, architetti, interior design e paesaggisti che ha lavorato alle costruzioni ha voluto pensare e sviluppare questa struttura come un’estensione verticale della terra più che come un edificio separato, analizzando l’esposizione alla luce solare, al vento e alle caratteristiche bioclimatiche dell’area per migliorare l’efficienza energetica del grattacielo. Infatti grazie ai pannelli fotovoltaici, agli azionamenti rigenerativi degli ascensori e all’ottimizzazione della ventilazione e dell’illuminazione naturale, garantita dalla forma elicoidale della struttura, che la rende anche antisismica, si è riuscito a ridurre al minimo anche la richiesta energetica della struttura, rendendola quasi autosufficiente.

In un futuro in cui la sostenibilità delle città diventerà sempre di più un fattore fondamentale su cui puntare per abbattere l’inquinamento e il surriscaldamento globale, la torre Tao Zhu Yin Yuan rappresenta il futuro dell’urbanistica, un concetto che a Milano è stato esplorato con il Bosco Verticale di Stefano Boeri che può essere considerata la versione “ridotta” del progetto di Taipei.

La superficie esterna di torri e grattacieli sarà sempre di più un’opportunità per il rimboschimento metropolitano e per la realizzazione di unità abitative in cui sono già implementati sistemi energetici dedicati alle energie rinnovabili. L’architetto francese Vincent Callebaut che ha progettato la spettacolare torre a spirale Tao Zhu Yin Yuan, sul suo sito internet racconta:

“il progetto tiene conto dei cambiamenti climatici e del surriscaldamento globale. È ispirato alla filosofia di Fan Li, che vede il mondo come una comunità: ogni cambiamento che apporta benefici, quindi, non è limitato al luogo in cui si attua, ma riguarda il mondo intero.”

* 9 marzo 2021

Le 15 migliori canzoni internazionali del 2020


Classic rock anti-trumpiano, techno emotiva, un inno alla solitudine che tutti abbiamo provato nel 2020, disco music da cameretta, sesso e bullismo, una canzone d’amore che contempla i punti di vista di due amanti, una grande cavalcata epica che contiene pezzi d’America. Ecco le migliori canzoni internazionali dell’anno selezionate dalla redazione di Rolling Stone.

15. “Try” Neil Young

Quarantacinque anni dopo la serata al Chateau Marmont in cui lo fece ascoltare agli amici, Homegrown, il disco perduto di Neil Young, è finalmente uscito dagli archivi. Rispetto a Tonight’s the Night – l’album “scelto” quella sera –, ha un suono più caldo, country, vicino alle atmosfere di Harvest, e testi ispirati alla separazione dall’attrice Carrie Snodgress. Try è una delle canzoni più ottimiste del disco: è un brano arioso e gentile che parla di riconciliazione, arricchito dalle armonie di Emmylou Harris e dalla batteria di Levon Helm. Il testo ha anche dei versi stranamente attuali, perfetto per l’anno della pandemia: “And I try to wash my hands / and I try to make amends / and I try to count my friends”. (Andrea Coclite).

14. “Jeanette” Kelly Lee Owens

Difficile spiegare il suono di Kelly Lee Owens a chi non ha ancora avuto il piacere e la fortuna di avvicinarsi. La producer e cantante inglese è un prodigio, la sua musica può farti viaggiare come penetrarti i sentimenti. Jeanette è l’emblema di una parte molto ampia della sua produzione, una techno emotiva che marcia dentro al cuore in cassa dritta. Kelly Lee Owens costruisce ambienti emozionali in cui lasciarsi sciogliere, dentro e fuori dal dancefloor. (Mattia Barro)

13. “Seven O’Clock” Pearl Jam

Se Gigaton è stato l’album della riascita artistica dei Pearl Jam, Seven O’Clock è probabilmente il brano che ne racconta meglio l’essenza. Non a caso posizionato al centro dell’opera, come spesso accaduto ad alcuni dei testi più intensi scritti da Eddie Vedder, Seven O’Clock non rappresenta solo la summa delle tematiche del disco, ma anche la migliore dimostrazione del livello di maturità raggiunta dal gruppo. Una fotografia impietosa della società americana, che si regge sull’ingiustizia sociale, sulla politica scellerata di Trump e che lascia che il pianeta si disintegri. Forse la cosa migliore della band da oltre vent’anni. (Luca Garrò)

12. “Good News” Mac Miller

Dopo un periodo funestato da drammi personali, depressione e dipendenze, Mac Miller sembrava essere tornato sui binari giusti, quelli che lo avrebbero condotto a diventare uno dei rapper più innovativi e interessanti del nuovo millennio. Purtroppo i suoi problemi lo hanno portato a una prematura morte nell’autunno del 2018. L’album a cui stava lavorando nei mesi precedenti, Circles, è uscito nel 2020, e brani come Good News sono un perfetto specchio del suo stato d’animo di quel periodo: un’amara riflessione su come spesso gli artisti siano trattati come saltimbanchi “che ci fanno tanto divertire”, e non come esseri umani dalla sensibilità rara. (Marta Blumi Tripodi)

11. “People I’ve Been Sad” Christine and the Queens

La nudità emotiva di Christine and the Queens è uno stato elettrico che si percuote dall’epidermide fino al centro del cuore. People I’ve Been Sad è una struggente ballad pop, una fondamentale dichiarazione di tristezza. Tutti nella vita siamo e saremo tristi: non c’è trucco. Ed è vero gente, anche io sono stato triste. (M.B.)

10. “Don’t Start Now” Dua Lipa

Dua Lipa è la popstar dell’anno, no dubbi a riguardo. La sua musica è S-E-X-Y, upbeat, contemporanea nel suo continuo riferirsi ai grandi momenti musicali dei ’70 e degli ’80. Don’t Start Now è un brano con una composizione davvero minimale, tutto groove basso-batteria (come riportato in voga da Mark Ronson) e – oddio – il pre-chorus più hot dell’anno. In sintesi, è la dose giornaliera di presa bene nell’anno più disastroso di questo millennio. Il rimedio pop per fuggire dalla realtà. (M.B.)

9. “My Future” Billie Eilish

Complice la melodia per nulla scontata e l’arrangiamento minimal e carico di atmosfera della prima strofa, se My Future fosse uscito cinquant’anni fa sarebbe entrato di diritto a far parte della categoria degli standard jazz. Ha l’innegabile pregio di aver regalato a Billie Eilish una veste meno monocorde rispetto a quella dei singoli precedenti, ma soprattutto rappresenta una ventata di novità in termini di contenuti. E tra le mille roboanti dichiarazioni d’orgoglio e indipendenza femminile che la musica pop ha sfornato in questi anni, è una delle migliori e più credibili canzoni d’amore nei confronti di se stessa che sia mai stata pubblicata. (M.B.T.)

8. “WAP” Cardi B, Megan Thee Stallion

Acronimo di Wet Ass Pussy, la canzone più oscena e pruriginosa dell’anno ha una sola vera colpa: quella di essere firmata da due donne. È abbastanza evidente, in effetti, che se le stesse barre più che esplicite fossero state contenute nelle strofe di due rapper uomini, ben pochi si sarebbero scandalizzati. Ivi compresa l’ultradestra americana, che ha trasformato questo brano in un caso politico, tirando in mezzo nel dibattito sociologi, ginecologi, femministe e Partito Repubblicano. Non verrà senz’altro ricordata per sottigliezza e buon gusto, ma una cosa è certa: è già passata alla storia. (M.B.T.)

7. “Bad Decisions” The Strokes

Sarà perché il tappeto di synth che reggeva la precedente At the Door ci aveva lasciato con un po’ di nostalgia dei vecchi Strokes o forse solo perché avevamo bisogno di ritrovare una delle band che aveva segnato maggiormente gli anni Zero, ma Bad Decisions ha decisamente lasciato il segno. La scelta furbissima di aggiungere nel refrain la citazione, con tanto di crediti, di Dancing With Myself di Billy Idol ha fatto il resto. Nei giorni successivi, album alla mano, avremmo scoperto che gli Strokes non avevano alcuna intenzione di vivere di ricordi, ma per qualche giorno è stato bello pensare si potesse trattare di una raccolta di decisioni sbagliate. (L.G.)

6. “Kyoto” Phoebe Brdigers

Phoebe Bridgers ha scritto Kyoto durante il suo primo viaggio in Giappone. È la canzone più movimentata di Punisher, quasi gioiosa rispetto alla cupezza che caratterizza il resto del disco, con un arrangiamento più ricco di quello che sembra (ci sono fiati, mellotron, un piccolo coro). Se avete dubbi su quanto possa funzionare la scrittura di Bridgers fuori dall’emo folk, questa canzone li cancellerà. (A.C.)

5. “Shamekia” Fiona Apple

Si sa, i ricordi dell’infanzia portano spesso con sé fantasmi da cui solo anni di terapia riescono a salvarci. In Fetch the Bolt Cutters Fiona Apple si mostra ancora una volta capace di raccontare la propria vita e gli aspetti più tragici di essa senza filtri, ma con una certa dose d’ironia e senza mai apparire patetica. Il racconto del suo rapporto con i bulli della scuola, reso con un ritmo quasi vaudeville, è uno dei capolavori psico-musicali dell’anno. La ciliegina sulla torta? Fiona che incontra dopo una vita la vecchia amica che l’aveva aiuta a credere in se stessa e che, a sua volta, scrive un pezzo con la sua versione dei fatti. (L.G.)

4. “Cut Me” Moses Sumney

Cut Me è la prima traccia di græ ed è perfetta per scoprire la bellezza del falsetto di Moses Sumney, la ricchezza degli arrangiamenti (qui con Oneohtrix Point Never e gli Adult Jazz), la scrittura libera che porta ogni melodia in direzioni inaspettate. È una canzone che parla di rivelazioni nate nel dolore. «È la mia versione di un vecchio pezzo soul», ha detto Sumney alla BBC. «Quando la scrivevo volevo omaggiare la miglior cantante di tutti i tempi, Aretha Franklin». (A.C.)

3. “Blinding Lights” The Weeknd

Cosa si può dire ad un brano che, su Spotify, ha raggiunto un miliardo e ottocento milioni di ascolti? Blinding Lights è una manata in faccia direttamente dagli anni ’80, un drittone di quelli belli come si facevano ai tempi, con la voce inconfondibile di The Weeknd e un refrain killer che sembra scritto dagli A-ha. Spudorato, sfacciato, sexy. Cosa altro possiamo chiedere a The Weeknd? Niente, anche perché pure il videoclip è una bomba. (M.B.)

2. “Exile” Taylor Swift feat. Bon Iver

Se esiste un brano perfettamente in grado di spiegare l’incomunicabilità tra due persone che si sono lasciate e ancora non riescono a decidere di chi sia la colpa, è Exile. La versione di lui (prima strofa) e quella di lei (seconda strofa) culminano in una serie di recriminazioni e accuse intrecciate magistralmente nel bridge, in cui la voce pulita e un po’ incolore di Taylor Swift e lo struggente timbro malinconico di Justin Vernon danno il meglio di sé. Una di quelle canzoni da ascoltare in loop quando si ha il cuore spezzato – e a quanto pare sono in tanti ad averlo di questi tempi, perché è una delle tracce più ascoltate e apprezzate di Folklore. (M.B.T.)

1. “Murder Most Foul” Bob Dylan

A otto anni dall’ultimo inedito, Dylan sveste i panni di Frank Sinatra e riparte in qualche modo da dove aveva lasciato. Nella sua missione di ridefinire le coordinate culturali della tradizione americana, dopo aver narrato della tragedia del Titanic in Tempest, Dylan sceglie di rievocare l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy. E lo fa con gli stilemi che ne hanno caratterizzato l’ultima fase della sua carriera. A partire dal riferimento shakespeariano del titolo, i 17 minuti del brano mischiano autobiografia e storia americana fino farle coincidere. Il tutto attraverso una ballata epica, quasi omerica, piena zeppa di citazioni e racconti degli eventi principali della seconda metà del Novecento. Che a loro volta diventano storie nella storia. Se non stupiscono i riferimenti a eventi e personaggi vissuti in prima persona (l’avvento dei Beatles, l’autoisolamento a Woodstock), più difficile era immaginare Dylan citare tanto Freddy Krueger (A Nightmare On Elm Street) che il Freddie Mercury di Another One Bites the Dust. (L.G.)

 

Discoteca 12 - Ennio Morricone


Ennio Morricone (1928 –2020) è stato un compositore, direttore d'orchestra e arrangiatore italiano. Ha scritto le musiche per più di 500 film e serie TV, oltre che opere di musica contemporanea. Le musiche di Morricone sono state usate in più di 60 film vincitori di premi. Come giovane arrangiatore della RCA, ha contribuito a formare il sound degli anni sessanta italiani con brani come Sapore di sale, Il mondo, Se telefonando.

 Dopo aver studiato al Conservatorio di Santa Cecilia, a Roma, dal 1946 ha composto più di 100 brani classici, ma ciò che ha assegnato la fama mondiale a Morricone come compositore, sono state le musiche prodotte per il genere del western all'italiana, con registi come Sergio Leone, Duccio Tessari e Sergio Corbucci.  Dagli anni settanta Morricone diventa un nome di rilievo anche nel cinema hollywoodiano, componendo musiche per registi come John Carpenter, Brian De Palma, Oliver Stone e Quentin Tarantino. Fra le più note le musiche per I giorni del cielo, Mission e The Untouchables. Nel 2007 ha ricevuto il premio Oscar onorario alla carriera" per i suoi grandi contributi all'arte della musica da film dopo essere stato nominato per 5 volte tra il 1979 e il 2001 ma senza aver mai ricevuto il premio. Nel 2016, ottiene il suo secondo Oscar per il film di Quentin Tarantino, The Hateful Eight.

Morricone ha vinto decine di altri premi. Ha venduto inoltre più di 70 milioni di dischi. Il 26 febbraio 2016, gli è stata attribuita la stella numero 2574 nella celebre Hollywood Walk of Fame. Il 27 dicembre 2017 ha ricevuto l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana, il secondo grado in ordine d'importanza. 
The Edge, chitarrista degli U2, ha dichiarato che Morricone è il suo artista preferito e la canzone Magnificent dell'album No Line on the Horizon è a lui dedicata.

L'11 gennaio 2020 gli è stato assegnato in Senato un premio alla carriera "per aver saputo raccontare con la sua musica storie di valore universale che, dal grande cinema alla televisione, dalla direzione d'orchestra alla composizione, hanno saputo incantare intere generazioni, divenendo testimonianza vivente del genio ed eccellenza italiana nel mondo”