di
Silvia Granziero *
In
occasione di uno dei Fridays for Future di
febbraio, i docenti del Regno Unito si
sono uniti agli studenti in sciopero per chiedere una riforma che dia più
peso al tema del cambiamento climatico nei programmi scolastici. Mentre le linee
guida del governo britannico affermano che gli studenti devono ricevere
dallo studio delle scienze a scuola la nozione dell’“evidenza e dell’incertezza
del contributo dell’uomo al cambiamento climatico”, queste affermazioni
generiche si traducono nei fatti in qualche accenno veloce, stretto tra le
scadenze dell’anno scolastico. Troppo poco per le generazioni di ragazzi che
crescono nella consapevolezza dell’emergenza ambientale e dell’impatto che avrà
sulla loro vita futura.
La
geografia in quanto studio dei luoghi fisici e della relazione delle
popolazioni con l’ambiente in cui abitano, potrebbe dare una grossa mano per
sensibilizzare sulla minaccia del cambiamento climatico. Lo sottolinea Steve
Brace, responsabile del settore Educazione della Royal Geographical Society, che
ha
scritto: “Combinando lo studio del mondo fisico e di quello umano, la
geografia fornisce un contesto unico per studiare come il clima sta cambiando e
come dobbiamo adattarci per mitigare i suoi effetti”.
Eppure
in materia dilaga l’ignoranza a livello globale, se è vero che, come emerso da un’indagine
del National Geographic,
ai tempi della seconda guerra del Golfo, il 63% degli americani tra i 18 e i 24
anni non sapeva collocare l’Iraq su un planisfero e il 50% nemmeno lo Stato di
New York. Il 30% sovrastimava il peso demografico globale degli Stati Uniti e
il 74% la diffusione della lingua inglese. John Fahey, Ceo di National Geographic, ha
commentato i risultati: “Eppure la conoscenza geografica è ciò che ci
permette di legare persone, luoghi ed eventi. È così che diamo senso al mondo”.
Le Indicazioni
per il curricolo del primo
ciclo
di istruzione
rilasciate nel 2007 dal ministero dell’Istruzione italiano affermano che “Fare
geografia a scuola vuol dire formare cittadini italiani e del mondo
consapevoli, autonomi, responsabili e critici, che sappiano convivere con il
loro ambiente e sappiano modificarlo in modo creativo e sostenibile, guardando
al futuro”. La dichiarazione di intenti ministeriale è però contraddetta dalla
sua applicazione pratica: la riforma
Gelmini ha diminuito le ore dedicate alla materia nelle scuole elementari e
medie, mentre nei
licei le due ore settimanali nel biennio sono diventate tre ore di
geostoria, un accorpamento che di fatto porta a dedicare un’ora e mezza all’una
e un’ora e mezza all’altra materia. Negli istituti tecnici, ad eccezione
dell’indirizzo turistico, è scomparsa e lo stesso avviene negli istituti
professionali. Ormai ultima ruota del carro nella scuola – motivo per cui sono
pochi i docenti specializzati – la geografia non se la cava benissimo neanche a
livello universitario, con appena 350
tra ricercatori e professori ordinari.
Cesare
Emanuel, docente dell’Università del Piemonte Orientale, ha però fatto notare
un aumento negli ultimi anni degli iscritti al corso di studi in geografia, per
la sua peculiarità di saper mettere in luce problematiche che singoli campi di
studio scientifici specializzati non possono cogliere. Per questo ha
sottolineato
l’urgenza di un cambiamento nella didattica, che parta da escursioni e studi
sul campo per dare un’educazione più organica del mondo. Questo è l’obiettivo
primario della moderna geografia, come sottolineato da Michael Palin, già attore
e presentatore di documentari, poi presidente della Royal Geographic Society, che ha
detto: “Il mondo è oggi molto più accessibile e credo che sia estremamente
importante che noi comprendiamo il mondo e perché i Paesi sono dove sono,
perché vivono come vivono, cosa producono e cos’è il clima”. In un’epoca come
la nostra, in cui non esistono più terre da scoprire, e dunque l’esplorazione
non può più avvenire in estensione, la geografia la porta avanti in profondità,
provando a conoscere meglio quello che si è già scoperto. Nell’epoca di Google
Maps e di Wikipedia la geografia non è più fatta (solo) di mappe e libri su cui
imparare le capitali, ma è sempre più una disciplina di sintesi, per avere
un’idea del mondo su più livelli, come sostiene il meteorologo
Luca Mercalli.
La
geografia non si limita alla lettura delle mappe, ma affronta temi attuali che
spaziano dal cambiamento climatico alle guerre: questa disciplina serve per
coordinare le strutture di soccorso in caso di calamità, ma anche per
comprendere il fenomeno dei rifugiati, da dove vengono e perché, dove vanno e
come si integreranno nel Paese di destinazione. La geografia è fondamentale per
gestire la crescita
demografica delle città, causa e insieme soluzione per risolvere i danni
all’ambiente: affiancata a altre discipline come la demografia, l’economia e
l’architettura, deve occuparsi della distribuzione della popolazione nei centri
urbani, del suo consumo di risorse, delle diseguaglianze sociali in rapporto al
territorio e degli spostamenti dei suoi abitanti.
Anche
se nel 2016 il presidente Barack Obama dichiarava che quella
americana fosse la più forte e durevole economia a livello mondiale, molti
cittadini statunitensi hanno confermato votando per Donald Trump nelle ultime
elezioni presidenziali di avere una percezione completamente diversa del Paese
in cui vivono. I più importanti giornali americani hanno sede sulla East Coast e questo fa sì
che i temi che riguardano più da vicino le comunità rurali e le cittadine
colpite da disoccupazione e disagio sociale siano sottorappresentate nel
programma mediatico quotidiano; lo stesso vale per le aziende della Silicon
Valley, concentrate sulla costa opposta: i loro investimenti e le tecnologie
che sviluppano distano anni luce dalla vita quotidiana della maggior parte
degli Stati centrali e dai problemi che devono affrontare, creando una grave
spaccatura nella società statunitense. Sarah Kendzior su
Quartz.com ha
scritto,
a proposito della distribuzione geografica di élite e masse, “Il lavoro è diventato meno un
indicatore di dove stai andando e più del luogo da cui vieni, influenzato da
elementi come le tue radici geografiche, lo status sociale della tua famiglia e
l’ammontare di denaro che ti serve per trasferirti altrove”.
La
scarsa rilevanza data alla geografia è ancora più assurda e controproducente in
un Paese come l’Italia, la cui economia ha due pilastri nella produzione
agroalimentare e nel turismo, entrambi connessi al territorio. I territori del
variegato panorama fisico italiano sono una buona fonte di reddito – secondo la
Banca d’Italia, nel 2018 i turisti stranieri hanno speso in Italia 41,5
miliardi di euro, in crescita rispetto ai 39,2
miliardi del 2017 – e potrebbero esserlo anche di più se valorizzati a
dovere, nel rispetto delle peculiarità fisiche, naturali e dell’economia
locale.
Per
quanto riguarda l’agroalimentare, la qualità dei prodotti è legata, anche sul
piano giuridico, ai temi di tipicità, origine e provenienza. Come
ha
sottolineato
il fondatore di Slow Food Carlo Petrini, “I territori si raccontano attraverso
i prodotti, ma quei racconti bisogna saperli ascoltare, bisogna conoscere la
lingua che i prodotti parlano. È una lingua fatta di climi, composizioni del
suolo, storie economiche e sociali, guerre, religioni”. Il territorio è
centrale per l’identità dei prodotti tradizionali, per i quali esistono
appositi marchi di qualità: tra gli altri, la Doc (Denominazione di Origine
Controllata) e la Docg (Denominazione di Origine Controllata e Garantita),
garantiscono anche per la qualità dei vini, forse il prodotto su cui la
geografia nel suo senso più ampio pesa di più, avendo un peso anche in quel
termine di difficile traduzione che è il terroir, importante per
la valutazione di un vino . La provenienza geografica da aree ben delimitate e
un preciso Disciplinare di produzione sono i requisiti per ottenere queste
denominazioni, confluite nel marchio europeo Dop (Denominazione di Origine
Protetta), le cui peculiarità vengono valutate essenzialmente o esclusivamente
in base al territorio di provenienza, per fattori naturali e umani che vi si
combinano con effetti non riproducibili in altre zone. Anche l’Igp (Indicazione
Geografica Protetta) garantisce i processi produttivi strettamente correlati a
un territorio, mentre la Stg (Specialità Tradizionale Garantita) riconosce la
specificità di un prodotto che si distingue per storia e tradizione da quelli
simili. La geografia agroalimentare si traduce in un beneficio annuale per il
settore food di 15 miliardi
di euro, secondo il rapporto Ismea-Qualivita 2018, di cui la metà frutto di
esportazione. La geografia è alla base anche dei prodotti cosiddetti “a
chilometro zero”, oggi richiesti anche per ragioni etiche di supporto alla
propria comunità territoriale e di risparmio sul trasporto in termini di
inquinamento.
Conoscere
la geografia permette di sfruttare al massimo, in modo consapevole e
sostenibile, le risorse che del proprio territorio, crea cittadini consapevoli
dell’ambiente che ci circonda e delle conseguenze che può subire per le nostre
azioni, oltre a rendere più evidenti i fili che collegano tra loro luoghi
distanti sul mappamondo. Sono questi gli elementi alla base del vivere e
muoversi consapevolmente nel mondo globalizzato. Senza queste conoscenze non è
possibile capire il mondo presente. Senza capire dove portano i bivi che gli
intrecci politici e sociali ci pongono di fronte, come si possono prendere le
decisioni giuste quando si ha facoltà di farlo?
*
da www.thevision.com - 4 aprile 2019
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